In ricordo di Vladimiro Zagrebelsky

Vladimiro Zagrebelsky è morto oggi nella sua casa di Gressoney. Vogliamo ricordarlo con le parole di Elisabetta Cesqui e Riccardo De Vito, cui affidiamo la gratitudine e il rimpianto di tutta Md.

La notizia della morte improvvisa di Vladimiro Zagrebelsky ha preso tutti di sorpresa. E’ stato parte così vitale della storia della magistratura e della cultura giuridica negli ultimi cinquanta anni che, come spesso avviene, si finisce per coltivare l’insana convinzione della inestinguibilità di presenze come la sua.  Nello sgomento che ha accompagnato la lapidaria notizia della sua scomparsa, mi sembra quasi consolatorio che tutto sia successo a Gressoney, in quella casa irraggiungibile in macchina che lui amava così tanto e che era il suo rifugio, materiale e mentale.  Sarà per questo che mi viene di pensare che nel suo amore per la montagna è possibile ritrovare i tratti che hanno segnato il suo operare ed il suo modo di relazionarsi con gli altri: serietà, rigore, costanza, consapevolezza della necessità di procedere per gradi, coscienza degli ostacoli e delle difficoltà, ma determinazione a raggiungere la meta, riservatezza senza alterigia, un certo riserbo tutto piemontese che si scioglieva poi in una cordialità misurata ma profonda.  Tutto questo traspariva dai suoi occhi azzurri e dal suo sorriso mite e sornione al tempo stesso, che conservava le tracce dell’origine russa attestata dal suo stesso cognome e sulla quale gli capitava spesso di scherzare. Impossibile riassumere in poche righe tutto quello che Vladimiro ha fatto in magistratura e per la magistratura. Dalla Procura presso la pretura di Torino, dove cominciò a traferire in regole operative la difficile conciliazione del principio dell’obbligatorietà dell’azione con quello della effettività del servizio, al Consiglio superiore della magistratura, dove sedette per ben due diverse consiliature, dal 1981 al 1985 e dal 1994 al 1998, affrontando soprattutto nella prima la difficilissima gestione delle ricadute disciplinari della vicenda P2. La sentenza che definì le responsabilità dei singoli rimane un documento esemplare per equilibrio di giudizio e rigore giuridico. Seguirono poi le esperienze al ministero, come direttore generale dell’organizzazione giudiziaria e poi capo dell’ufficio legislativo ed il contributo determinante in diverse commissioni ministeriali, non solo, ma certo tra le più importanti, quella sull’ordinamento giudiziario. I temi ordinamentali sono stati sempre centrali nella sua riflessione e elaborazione, ma la sua attività è stata così ricca di esperienze che molti di noi ne hanno intercettato personalmente qualche segmento, conservandone tutti lo stesso ricordo di saggezza e rigore. Per quello che mi riguarda rimane indimenticabile l’esperienza ministeriale tra il 1998 ed 2001, quando a via Arenula, si trovarono ad operare, chiamate dal ministro Flick e sulla sua scia da Diliberto e Fassino,  quelle che non ho timore di definire,  se non fosse incongruo citare Kerouac in un contesto dell’amministrazione, “le menti migliori della mia generazione” di giudici e di giuristi.  Tra di loro Vladimiro si imponeva con naturale e non ostentata autorevolezza ed ogni riunione era un’occasione di arricchimento.

 Ricordo in particolare il periodo in cui maturò la decisione di presentare la sua candidatura per la Corte europea dei diritti dell’uomo, tema sul quale ci confrontammo costantemente, e la serietà e l’impegno con cui superò le non facili fasi della selezione che portarono all’elezione. D’altra parte l’attività internazionale era uno dei suoi punti forti e la cosa che più gli invidiavo, nelle diverse occasioni in cui mi è capitato di trovarmi con lui all’estero o in riunioni al ministero, non era tanto la competenza, con la quale non c’era proprio possibilità né ambizione di confronto, ma il perfetto inglese che gli sentivo parlare con accento impeccabile.

Molto ci ha lasciato, e lo sanno bene tutti quelli che in numerosissime occasione, hanno potuto ascoltare i sui insegnamenti in sede di formazione, in seminari e nel dibattito associativo al quale ha contribuito in modo determinante per la costruzione del movimento per la Giustizia, fin dal documento costitutivo del 1988, che porta infatti in calce anche la sua firma.

 Sarebbe troppo facile mettere a confronto l’esemplarità della sua storia e la tristezza dei tempi presenti, ma sarebbe un errore che non renderebbe giustizia ai suoi insegnamenti e al suo spirito montanaro: per quanto i tempi possano essere cupi non bisogna né demordere né compiangersi, ma con ostinazione e razionalità costruire una via di uscita e per trovarla non mancheranno né gli uomini né le idee.  Sono sicura che questo sarebbe il suo monito e non abbiamo alternative se non quella di ascoltarlo.

Elisabetta Cesqui

Nel 2014, in un novembre ancora assolato (che noi prendemmo per dolce e mite, ma che forse era già rivelatore della ferocia dell’azione umana sul pianeta), il Coordinamento nazionale magistrati di sorveglianza festeggiò i suoi dieci anni di attività a Torchiara, vicino Salerno, ospiti della splendida casa di Pasquale Mangoni, storico presidente della sorveglianza triestina.

Eravamo tanti, in una due giorni conviviale. Sandro Margara era ancora vivo, ma poté mandare solo i suoi saluti.

C’era appena stata, l’anno prima, la sentenza Torreggiani e il legislatore aveva partorito i rimedi contro il sovraffollamento, tra cui quello risarcitorio dello sconto di pena per i giorni vissuti in meno di tre metri quadri.

In quell’occasione, per parlare di tutto quello che c’era dietro la sentenza Torreggiani, chiamammo Vladimiro Zagrebelsky. Lo nominammo socio d’onore per il suo impegno a difesa dei diritti delle ristrette e dei ristretti.

Le sue parole nitide furono una sorta di fissante per me, un coppale in grado di dare protezione e lucidare i legni della materia penitenziaria. Mi convinse definitivamente del fatto che il vero praetor curat eccome de minimis, perché il minimo dei detenuti coincide con il quasi tutto dei liberi.

Finimmo con una meravigliosa passeggiata a Paestum, dove parlammo di passioni per alcuni autori greci.

La sua perdita mi addolora. Mi pare, anche, in quest’epoca di crudeltà, un ennesimo segno del fatto che il nostro, ora, non è un Paese per gentili d’animo.

Rimane l’ottimismo del suo sorriso, però.

Riccardo De Vito