Calabria «smontata» dal processo mediatico

Indagini e stampa

Calabria «smontata» dal processo mediatico

di Emilio Sirianni
presidente della Sezione lavoro della Corte d’Appello di Catanzaro
Prudenza istituzionale e rispetto delle persone coinvolte, inclusi gli indagati, impongono sobrietà e cautela nelle dichiarazioni rese dai magistrati alla stampa

Nei giorni scorsi un imponente provvedimento cautelare ha scosso il mondo politico calabrese. Prudenza istituzionale e rispetto per i diritti delle persone coinvolte vorrebbero che i commenti si ispirassero a grande cautela.

Sia perché formulati a carte coperte, discutendosi di atti non accessibili alla pubblica opinione, sia soprattutto perché relativi ad una fase aurorale del processo penale, il cui svolgimento e conclusione, nel caso concreto, richiederanno diversi anni.

Dalle cronache, tuttavia, parrebbe emergere la conferma della profondità e diffusività della metastasi criminale che soggioga la Calabria e non si può non provare un senso di gratitudine verso forze dell’ordine e magistrati che si sono spesi nel difficile lavoro d’indagine, a prezzi che sono sempre tremendamente alti.

Ciò detto, chi ha a cuore le garanzie e i diritti scolpiti nella nostra Costituzione deve conservare la lucidità e il coraggio necessari per denunciare, là dove ne avvengano, violazioni di quei diritti e di quelle garanzie. Che possono venire non solo dal mancato rispetto delle norme del procedimento penale, ma anche dalla gestione mediatica dello stesso.

Questione controversa come poche altre quella dei rapporti fra magistrati, in particolare pubblici ministeri, e media, che puntualmente si ripropone. Al fondo sta la presunzione costituzionale d’innocenza, che dal processo mediatico può subire lesioni non meno gravi di quelle che potrebbe patire nel processo penale vero e proprio.

È un rapporto controllato-controllore, quello che si instaura fra autorità giudiziaria e organi di informazione, garanzia di trasparenza nell’esercizio dei poteri che fanno capo alla prima. Cui consegue anche un «dovere di informazione» da parte di quella stessa autorità (affermato dalla Cedu sin dal 1979). Un’acuta giornalista come Donatella Stasio ha osservato: «È necessario che la giustizia sia trasparente e comprensibile, che sappia parlare al cittadino e, dunque, comunicare, cosa ben diversa dal rincorrere il consenso popolare». Simili riflessioni vengono alla mente leggendo le dichiarazioni del dirigente dell’ufficio di procura che ha condotto l’importante indagine di cui si parlava all’inizio e che non mi pare siano state smentite.

Egli avrebbe dichiarato di avere svolto le proprie funzioni di procuratore guidato, sin dall’inizio, dall’idea di «smontare la Calabria come un treno Lego e poi rimontarla piano piano», parlato di «giornata importante e storica, non solo per la Calabria» e collocato l’operazione in una graduatoria di portata storica: «La più grande operazione dopo il maxi processo di Palermo». Si è lamentato di una sorta di boicottaggio della notizia, distinguendo fra i giornali che l’hanno coraggiosamente collocata in prima pagina e quelli che l’hanno relegata all’interno. Ha descritto le condizioni della procura, nell’anno in cui ne ha assunto la guida, come quelle di un ufficio «disorganizzato», popolato da «tristi» sostituti e da una polizia giudiziaria senza entusiasmo. Ufficio che, di nuovo, egli avrebbe «smontato» e ricostruito dalle fondamenta. Attività di smontaggio e rimontaggio che avrebbe esteso all’intera Giustizia se fosse stato investito – come alcuni anni fa si paventava – del ruolo di ministro guardasigilli.

Le ricordate dichiarazioni, oltre che poco riguardose verso il procuratore facente funzioni che lo ha preceduto e che risulta averle svolte con diligenza e competenza e verso i molti sostituti che vi lavoravano e lavorano rifuggendo palcoscenici mediatici, ledono la dignità del cittadino indagato o imputato. Non solo di quelli dello specifico procedimento, ma di ogni cittadino indagato o imputato, che dovrebbe essere considerato innocente fino a condanna definitiva che dica il contrario. Il che imporrebbe, sul palcoscenico dei media, quella sobrietà di comportamenti e dichiarazioni che altri – primo l’indimenticato istruttore dell’evocato maxi procedimento di Palermo – hanno sempre mantenuto.

Luigi Ferrajoli, al XIX congresso di Magistratura democratica regalò ai partecipanti 9 massime deontologiche che dovrebbero guidare chi esercita le nostre funzioni. La sesta massima chiede «il rispetto di tutte le parti in causa, incluso l’imputato, chiunque esso sia, soggetto debole o forte, incluso il mafioso o il terrorista o il politico corrotto» perché «il diritto penale nel suo modello garantista equivale alla legge del più debole. E … se nel momento del reato il soggetto debole è la parte offesa, nel momento del processo il soggetto debole è sempre l’imputato e i suoi diritti e le sue garanzie sono altrettante leggi del più debole». Diritti e garanzie che saranno sempre esposti a negazioni ed eclissi, finché l’intera magistratura non mostri d’avere introiettato questa fondamentale massima.

Articolo pubblicato da Il Manifesto,
il 24 dicembre 2019

27/12/2019

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