Il DDL di riforma “Bonafede”
Contrastare la deriva carrieristica con la normalizzazione burocratica?
Il recente DDL “Bonafede” non segna la svolta in funzione del cambiamento culturale richiesto: quello volto a disegnare una magistratura “senza carriera” e una dirigenza non intesa come corpo separato all'interno della magistratura, ma come esperienza diffusa e come funzione reversibile. La riforma delineata dal DDL “Bonafede”, al contrario, rischia di allontanare la magistratura dalla sua fisionomia costituzionale e, al contempo, di trasformare il CSM in un organo di amministrazione e di governo del personale: un primo passo, questo, verso una ristrutturazione in senso verticistico e burocratico dell’ordine giudiziario e, dunque, verso la perdita del suo assetto funzionale ad una giurisdizione indipendente.
1. Nelle norme di ordinamento giudiziario deve trovare concreta attuazione il modello di magistratura disegnato dalla Costituzione, non solo indipendente dai poteri esterni, ma libera da condizionamenti e auto-condizionamenti interni.
L’eguaglianza delle funzioni sancita dal terzo comma dell’art. 107 (“i magistrati si distinguono fra loro solo per diversità di funzioni”) è il “germe positivo” che la Costituzione ha inoculato nella struttura del sistema giudiziario contro i rischi di verticizzazione legati a gerarchie interne e a percorsi di carriera ascendente, e contro gli effetti indotti di conformismo e di ricerca di consonanza con il potere esterno.
Le ragioni più profonde della crisi disvelata dai fatti di Perugia vanno ricercate nelle gravi deviazioni e regressioni culturali che, in questi anni, hanno allontanato la magistratura e il suo sistema di governo autonomo dalla loro fisionomia voluta dal costituente.
Invertire la rotta è necessario e possibile solo rivitalizzando l’esempio di una magistratura organizzata su basi egualitarie, inverando il modello costituzionale di un potere giudiziario diffuso e orizzontale, valorizzando tutte le potenzialità che al CSM sono state conferite nell’interesse della giurisdizione.
2. Non pensiamo che la riforma disegnata dal recente DDL vada in questa direzione. Per molti versi, rischiamo viceversa di allontanarci ulteriormente dal modello culturale da ritrovare, restituendo pari dignità alle funzioni giudiziarie e, a quelle dirigenziali, il significato di un incarico di servizio.
Per questo, il giudizio negativo sul risultato complessivo della riforma non è controbilanciabile con il valore di alcuni specifici e settoriali interventi, pure sollecitati dalla magistratura associata, o che recepiscono soluzioni di buona amministrazione già previste dalla prassi (come l’obbligo di rispettare l’ordine di vacanza dei posti per le decisioni su incarichi direttivi e semidirettivi) e indicazioni elaborate dalla normativa secondaria del CSM (come le disposizioni sui progetti organizzativi delle Procure).
Anche l’impatto di riforme positive e capaci di produrre importanti e duraturi effetti “di sistema” – come quella dell’accesso, con l’attesa abolizione del concorso di II grado che in questi anni ha determinato di fatto una selezione per censo – rischia di essere sminuito nel nuovo assetto ordinamentale e di governo autonomo disegnato dal DDL.
Nelle disposizioni che riformano la legge elettorale del CSM, riservando l’elezione dei magistrati con funzioni di legittimità ai soli magistrati di Cassazione, si ritrova la visione di un ufficio separato e di “vertice”; si ritorna così alla distinzione della magistratura alta contrapposta a quella bassa; si compromette la visione unitaria della giurisdizione e delle funzioni. In tale direzione vanno anche le ulteriori limitazioni poste al passaggio di funzioni giudicanti/requirenti e le disposizioni che distinguono il corpo elettorale sulla base della diversità di funzioni esercitate o di uffici di appartenenza (accanto al collegio per la Cassazione, altro collegio elettorale separato è riservato ai magistrati fuori ruolo, dell’ufficio del massimario e del ruolo della Cassazione e della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, soluzione che contribuisce a rafforzare la visione di una magistratura non unitaria, e di carriere o uffici portatori di interessi specifici).
3. L’obiettivo di disincentivare il carrierismo si persegue attraverso quello di mettere sotto tutela il CSM, imbrigliandone la discrezionalità e chiudendo gli spazi anche per gli interventi di normativa secondaria (da qui la disciplina dettagliata di parametri e indicatori dell’attitudine direttiva, e la delega al legislatore per individuare il peso che dovranno assumere quelli specifici nella valutazione comparativa).
Pur avendo raccolto alcune proposte emerse dal dibattito associativo (come l’ampliamento del tempo minimo di permanenza nell’incarico direttivo prima del passaggio ad altro ufficio), la scelta più qualificante della riforma, in questo ambito, è costituita dal rafforzamento del ruolo dell’anzianità sia come criterio di legittimazione (si innalza per i direttivi il livello di professionalità richiesto), sia come fascia, introdotta con funzione di moralizzazione per delimitare la gamma degli aspiranti legittimati a concorrere (così la relazione introduttiva al DDL).
Un deciso passo indietro rispetto alla precedente scelta legislativa di riduzione del peso dell’anzianità e una soluzione che, se scoraggia la corsa agli incarichi e l’attenzione alla programmazione e costruzione di percorsi professionali mirati alla dirigenza, non elimina affatto l’idea di carriera, che a ben vedere si concilia anche con quella dell’avanzamento per anzianità.
Una soluzione, quindi, che non segna la svolta in funzione del cambiamento culturale richiesto: quello volto a disegnare una magistratura “senza carriera” e una dirigenza non intesa come corpo separato nella magistratura, fondato su uno status permanente e su percorsi paralleli a quelli giurisdizionali, ma come esperienza diffusa e come funzione reversibile, attraverso meccanismi di effettiva attuazione del principio di temporaneità.
4. Il sistema elettorale prescelto, di tipo maggioritario, non appare idoneo a garantire obiettivi prioritari per la legittimazione e l’autorevolezza del CSM, come la sua rappresentatività in relazione alle diverse opzioni culturali presenti in magistratura (dei gruppi e dei singoli) e la paritaria rappresentanza di genere.
La riforma presenta, anzi, numerose criticità che rischiano di enfatizzare i “mali” che si propone di sconfiggere e di innescare ulteriori distorsioni: la natura puramente individuale delle candidature, in presenza di ineliminabili aggregazioni per idee e visioni, non garantisce che aree culturali di minoranza siano in qualche modo rappresentate; la previsione delle preferenze multiple si presta a favorire pratiche di scambio e accordi sul voto nei diversi collegi tra i gruppi maggiori, con una riproduzione in forma diversa delle peggiori dinamiche del “correntismo” indotte dall’attuale legge elettorale, a scapito della rappresentanza delle minoranze e dell’effettivo potere di scelta dell’elettore; la previsione di collegi elettorali separati produce il frazionamento del corpo elettorale per categorie, mentre la Costituzione prevede tale distinzione solo per i magistrati da eleggere (art. 104, quarto comma); d’altra parte, nel sistema riformato, non può escludersi la possibilità di un risultato elettorale che non dia rappresentanza, attraverso gli eletti, alla pluralità delle funzioni, con perdita delle esperienze di cui queste sono espressione.
La previsione della parità di “chance” assicurata per le candidature (almeno cinque in ogni collegio) e l’alternanza per genere delle preferenze non assicurano l’elezione di candidate e, quindi, la risposta ad una questione non più eludibile, che ha a che fare con l’essenza e l’effettività della democrazia, con il pieno sviluppo dei principi dello stato di diritto e della loro sostanza, quali sono i valori del pluralismo, delle differenze e della eguaglianza effettiva fra i generi.
Anche sotto questo profilo la riforma non è in grado di assicurare una composizione del CSM in funzione della sua rappresentatività, autorevolezza e legittimazione rispetto alla composizione della magistratura, che oggi vede una presenza di oltre il 50% di donne.
La previsione, sia pure in via residuale, del ricorso al sorteggio per la composizione delle liste completa, anche con forte valenza simbolica, il quadro delle criticità: si introduce per la prima volta nella procedura di composizione di un organo di rilevanza costituzionale un elemento di casualità, che ne svilisce il valore e la funzione.
5. La magistratura riformata secondo il recente DDL rischia di rafforzarsi come corpo burocratico e funzionariale.
Alla sua burocratizzazione prelude la previsione di meccanismi che tendono a ridurre momenti dell’autogoverno, che incidono nella costruzione del nostro modello di magistratura (come la selezione per incarichi direttivi e l’accesso alle funzioni di legittimità), a funzioni meramente compilative o applicative di criteri, punteggi, parametri e indicatori fissati dalla normativa primaria.
Il CSM – ha scritto Pino Borrè – è l’istituzione che ha dato senso e realtà all’evoluzione della magistratura: “se la giurisdizione è uno strumento, un istituto di garanzia, il CSM è in qualche modo la garanzia della garanzia, la chiave di volta che rende realistico, possibile, un sistema giudiziario democratico”.
Nella riforma Bonafede, con pochi tratti di penna, si eliminano queste potenzialità. Il sorteggio dei componenti delle commissioni e il divieto di costituzione dei gruppi riscrivono la fisionomia di una istituzione che viene privata della sua politicità, necessaria per orientare le scelte di amministrazione verso le esigenze della giurisdizione, e della rappresentanza come indispensabile veicolo di idealità, di opzioni politico-culturali diverse, delle varie sensibilità presenti tra i magistrati e, in definitiva, del pluralismo interno alla magistratura.
Occorre essere consapevoli delle evoluzioni che si intravedono dietro queste riforme strutturali, di sostanziale cambiamento della fisionomia costituzionale del Consiglio.
Neutralizzarne la “politicità”, espropriarlo delle prerogative di discrezionalità essenziali per l’esercizio dell’autogoverno, è la premessa per renderlo subalterno alle logiche e al controllo della sfera politica esterna.
Trasformare il Consiglio in un organo di amministrazione e di governo del personale è il primo passo verso una ristrutturazione in senso verticistico e burocratico dell’ordine giudiziario e, dunque, verso la perdita del suo assetto funzionale ad una giurisdizione indipendente
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