Magistrati e avvocati
Dialogare non è un optional, ma un dovere
Nel confronto paziente e costante si realizza una comune assunzione di responsabilità verso la collettività rispetto alle carenze e alle disfunzioni della Giustizia, che purtroppo da tempo riscontriamo.
Il dialogo è, oggi, un percorso obbligato contro i rischi della deriva populista, per costruire un argine a difesa del nostro sistema di diritti e di garanzie.
È il metodo della democrazia, il riconoscimento della reciproca legittimazione ad essere interlocutori credibili sui temi della giurisdizione e non può essere relegato ad un “fatto” di sensibilità culturale o di maggiore apertura di alcuni settori della magistratura e dell’avvocatura.
Il dialogo ed il confronto sono ciò che strutturalmente richiede il nostro ruolo.
Ecco perché sorprende e preoccupa la decisione dell’avvocatura di reagire alle esternazioni del consigliere Davigo sul processo e sulle garanzie, espressamente definite “posizioni ideologiche”, non con argomenti e contenuti, ma invocando improponibili reazioni sul piano istituzionale e disciplinare.
Ci auguriamo che questa posizione da contrapposizione “strutturale” inaugurata dalla Camera Penale di Milano resti isolata nell’avvocatura.
Per quanto ci riguarda, difenderemo sempre il diritto di ognuno di esprimere liberamente il proprio pensiero, anche quando non lo condividiamo.
Ci auguriamo, però, che la magistratura sia consapevole di quanto la deriva neocorporativa e populista rischi di rafforzare questa linea di non-dialogo.
Prima ancora dell’avvocatura, dovrebbe essere infatti la magistratura ad evitare che nell’opinione pubblica si consolidi la visione di “alcuni” sulle garanzie, su processo penale e pena, sul ruolo stesso dell’intervento giudiziario come fosse il “vero punto di vista” o “il punto di vista di tutti”.
Il pluralismo culturale che rivendichiamo serve anche a questo: ad immettere nel dibattito pubblico una visione delle garanzie processuali e della difesa diversa da quella che tende a banalizzarne il valore e che rischia di delegittimarne la funzione; la consapevolezza dei limiti del nostro ruolo contro l’immagine del magistrato unico ed infallibile portatore della verità e del bene; l’attenzione ad un linguaggio corretto; la capacità di autocritica rispetto alle pretese di autarchia, alle chiusure corporative e a tutti i rischi del populismo giudiziario.
L’arrendevolezza che da tempo caratterizza le posizioni della magistratura progressista rispetto a posizioni assunte e rappresentate nel dibattito pubblico e nel confronto con l’avvocatura in nome di tutta la magistratura da chi ha ruoli rappresentativi o istituzionali, e che avrebbero richiesto un’esplicita e netta correzione di rotta, non rappresenta solo un ostacolo sul percorso del dialogo.
A lungo andare, da strategia comunicativa o elettorale rischia di trasformarsi in vera subalternità culturale.
L’indulgenza verso chi sa ben comunicare non deve distrarci dai contenuti di ciò che si comunica.
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