Il saluto di Beniamino Deidda

Le parole

Il saluto di Beniamino Deidda

di Esecutivo di Magistratura Democratica
"Essere garanzia dei più deboli"

FIRENZE - Ci sono momenti nei quali l’emozione prevale sul ragionamento e a me non riesce di parlare. Questo è uno di quei momenti. Ma poiché non posso evitare di rispondere ad un’accoglienza così calorosa e alle parole, un po’ fuori misura, che mi sono state rivolte, seguirò una traccia per cercare, almeno, di non parlare a vanvera.

Quando qualcosa di importante finisce io divento serio (compatibilmente, si capisce, con la mia natura che non è mai troppo seria). Proverò perciò a dir le cose che più mi premono. La prima cosa, che prevale sulle altre, è la gratitudine. Io devo molto a tante persone, un numero tale che se mi mettessi ad elencarle, questo saluto durerebbe troppo. Sono loro debitore, non solo per le tante cose che mi hanno insegnato a fare meglio il mio mestiere, ma soprattutto perché hanno costituito quella rete di preziosi interlocutori, senza i quali non può operare un magistrato che non voglia essere un giudice solitario e lontano dalle cose del mondo.

Non posso citare tutti quelli che ho in mente, come pure vorrei. E allora mi rivolgerò a pochi, capaci di rappresentare simbolicamente coloro che mi sono stati compagni in tanti anni di lavoro. Il primo grazie va al Presidente della Corte Fabio Drago e alla Corte fiorentina. Con il Presidente Drago è accaduto qualcosa che ha del miracoloso. Come tutti sanno non sempre i rapporti tra i Presidenti di Corte e i Procuratori Generali sono idilliaci. Non si sa se per il mero decorso del tempo o perché si rincretinisce non appena nominati capi del distretto, i Presidenti e i Procuratori Generali di solito danno vita ad una serie di ripicche nutrite di piccole invidiuzze e di malintesa affermazione del proprio prestigio, misurato con la lunghezza della macchina di servizio, con il numero di inviti ricevuti dalle persone in vista e con la considerazione goduta in ambienti con i quali sarebbe saggio non avere mai contatti. Ebbene il presidente Drago ed io, che siamo dotati di un robusto senso del ridicolo, non solo non ci siamo lasciati tentare dalle ripicche, ma abbiamo cominciato a lavorare in pieno accordo alle tante cose di cui il distretto aveva bisogno. Penso che abbiamo messo in piedi una collaborazione, così priva di contrasti e così produttiva da non trovare l’eguale in tanti lustri di vita giudiziaria fiorentina. Certo siamo stati aiutati dal fatto che avevamo tanto da fare, soprattutto per adempiere ad un impegno storico: inaugurare il nuovo palazzo di giustizia. Mentre lavoravamo sodo, abbiamo trovato il tempo per prenderci in giro e per ridere dei presuntuosi che ci sono in giro. Interrompere questa consuetudine con Fabio sarà una cosa tra le più difficili da sopportare.

Ma non sarà l’unica. Mi mancheranno tutti i colleghi con i quali il rapporto è stato sempre un po’ speciale, anche nei momenti delle divergenze e dei contrasti di opinioni. E penso con qualche rimpianto a quelli con cui ho lavorato a stretto contatto. Specialmente durante la mia attività di dirigente degli uffici, ho avuto la fortuna di costituire dei gruppi così uniti da poter affrontare qualsiasi difficoltà. Penso, ad esempio, al gruppo dei miei sostituti procuratori pratesi, così unito da non avere quasi più bisogno di una guida, un gruppo nel quale erano presenti alcuni dei magistrati più bravi che ci siano in questo paese, che per fortuna oggi sono qui a salutarmi. Con loro vorrei salutare i miei vecchi uditori che ora sono cresciuti e non hanno dimenticato, tanto che qualcuno oggi è arrivato da molto lontano per salutarmi. E infine non posso dimenticare i miei ultimi compagni di lavoro, l’Avvocato Generale e i sostituti della procura generale, dei quali vado molto orgoglioso.

Ma, come tutti possono capire, nei lunghi anni del mio servizio, non ho avuto rapporti solo con i magistrati. Ne ho avuti, intensissimi, anche con il personale amministrativo, senza il quale non è pensabile che si possa amministrare la giustizia. Ho conosciuto persone straordinarie, ma non posso citarle tutte. Vorrei simbolicamente ricordarne una sola, capace di rappresentarle tutte: la Paola Miceli, che attualmente svolge funzioni di dirigente della procura  generale. La Paola, senza parere, tiene in piedi l’ufficio, sempre con un filo di voce, senza atteggiamenti autoritari, curiosa del suo lavoro e attenta alle finalità dell’azione giudiziaria.  Ma desidero dirvi che dietro la Paola ci sono tanti altri visi e altri nomi che ho tutti presenti e che non citerò per non rischiare di dimenticarne qualcuno. Lasciatemi però citare la mia segretaria  particolare, la Cinzia Neri.

Cinzia è stata i miei occhi quando non ero in grado di vedere, la mia memoria  quando avevo troppe cose da fare per ricordarle tutte.  E’ stata lei che è riuscita ad evitarmi le figure peggiori, attenta, fedele, paziente. E poi ha avuto un merito difficile da dimenticare: quando chiedevo l’impossibile, l’oggettivamente impossibile, non si scomponeva. Si metteva lì con me a cercare di raggiungere l’impossibile. E spesso insieme ci siamo riusciti, a riprova del fatto che le persone più concrete sono proprio quelle che ritengono possibile anche l’impossibile.

Lascio con oggi molte abitudini che mi hanno fatto compagnia: le chiacchierate nei lunghi viaggi con gli autisti e con gli uomini della scorta. Abbiamo girato l’Italia in un clima amichevole e senza formalismi, tanto che non si capiva bene se erano loro a scortare me o io a scortare loro.

Il collocamento a riposo è sempre l’occasione dei bilanci e della resa dei conti con sé stessi. Solo che il bilancio della mia vita professionale non lo posso fare io. Lo farete voi, lo faranno gli altri. Io posso solo dire quali sono state le mie intenzioni e i miei propositi, senza poter dire nulla della loro riuscita.

Ci sono state delle ispirazioni costanti nella mia attività di giudice e di pubblico ministero. Si tratta di poche cose semplici e facili a dirsi.

a) La prima è stata la scoperta della Costituzione, o meglio delle implicazioni della Costituzione nel lavoro del magistrato. Nei primissimi anni ero incerto, mi guardavo intorno, la magistratura mi appariva monolitica e impenetrabile. Poi conobbi Marco Ramat. Ne avevo già sentito parlare e  leggevo i suoi aricoli sul ‘Mondo’. Mi cercò lui insieme a pochi altri colleghi. Poi una sera del 1965 ci incontrammo a casa di Michele Corsaro. Cucinava la moglie di Michele, che è siciliana. Come sapete, in questo paese le intuizioni più geniali si hanno a cena o, meglio, dopo cena. E dopo cena Marco ci propose di fondare la sezione toscana di MD, che qualche mese prima era nata a Bologna. Dopo una appassionata discussione decidemmo. Non ricordo bene chi fosse presente a quella cena, ma eravamo pochissimi: ricordo bene che c’erano i due fratelli Corsaro. Marco aveva 33 anni, Michele 35, suo fratello uno di più ed io 28. Non capimmo subito quanto sarebbe stata importante quella sera. Ma avevamo chiaro da subito  in quale progetto volevamo calarci. Lo descrisse bene Marco Ramat nel primo numero di Quale Giustizia: “…crediamo di interpretare una parte alla quale vogliamo essere fedeli. E’ il processo storico di assimilazione profonda e capillare dei valori della Costituzione, nella magistratura e nella giustizia. Cento volte abbiamo scritto e detto che forse non c’è nessuna legge la quale non si presti a più interpretazioni e che il  nostro dovere morale politico e giuridico è di scegliere l’interpretazione più aderente e più capace di realizzare quei valori”.

b)      La seconda ispirazione si traduceva in un’esigenza che mi si è sembrata subito urgente. Quella di fare entrare aria fresca all’interno di una corporazione che somigliava molto ad una casta. I giudici non erano ancora preparati all’aria nuova. Pensavano che ogni critica rappresentasse un attentato alla loro dignità  e che le sentenze dovessero essere accettate senza discussioni, specie quelle della Cassazione. Si ammetteva, certo, che ci potessero essere errori, ma si pretendeva che i panni sporchi fossero lavati in famiglia. Ricordo che nei primi anni 70, dopo alcune critiche vivaci da me rivolte a certi colleghi, un autorevole magistrato, del quale serbo del resto un ottimo ricordo, mi diceva: tu non puoi sputare nel piatto in cui mangi. Sono convinto come allora, e forse di più, che tutti debbono poter vedere cosa si mangia in quel piatto e che dentro le istituzioni tutti debbano poter vedere in trasparenza e formulare le critiche che ritengano opportune.

c)      Il terzo punto di riguarda la funzione da attribuire al diritto nelle società moderne. Pensavo che la democrazia si realizza quando il diritto acquista  la sua funzione di limite alla forza e alla prepotenza. Che il diritto dispiega la sua efficacia quando sottomette alla legge ogni altro potere. Che il diritto ha senso quando costituisce un argine all’egoismo e al privilegio e quando è in grado di tutelare le minoranze dallo strapotere delle maggioranze. E ho sempre ritenuto che per il giudice applicare la legge volesse dire prima di tutto farsi garante dei diritti dei più deboli. Qualcuno tra di noi ha qualche volta pensato che tra i più forti e i più deboli ci potesse essere per il giudice un impossibile spazio di equidistanza. Ma questa equidistanza, spesso scambiata per imparzialità, per il giudice non è possibile, perché tradirebbe il suo compito di garante della giustizia.

A queste poche cose ho cercato di attenermi, nei lunghi anni del mio servizio, senza neppure sapere bene se ci sono mai riuscito. Ma non è questa la cosa più importante. Per me è stata invece importante la convinzione che intorno a questi principii fosse possibile costruire un modello di magistrato adatto alla complessità dei tempi che viviamo, un modello la cui forza e la cui modernità sta nella consapevolezza di incarnare il giudice voluto dalla nostra Costituzione. Un magistrato così non ha bisogno di gesti eroici o anche solo clamorosi. Sento dire ogni tanto che qualcuno di noi ha dovuto resistere alle lusighe, che ha dovuto farsi forza dinanzi alle tentazioni e respingere con decisione indebite pressioni. Io sono stato più fortunato nella mia carriera. Non ho mai dovuto resistere a niente, per la buona ragione che nessuno mi ha mai offerto niente, nessuno mi ha mai chiesto qualcosa di illecito, e non ho avuto nemmeno velate proposte, o almeno non me ne sono accorto; il che, lo riconosco, per un giudice non è un buon segno. Ma credo che la ragione vera di queste mancate proposte sia l’ispido carattere dei sardi e il fatto che la mia faccia non ispira niente di buono. La mia faccia purtroppo delude gli amici, ma ha il vantaggio di tenere a freno i malintenzionati.

Ai giovani magistrati, ai quali vorrei dedicare queste  poche parole, non posso certo raccomandare di procurarsi una faccia come la mia, ma posso consigliare di seguire alcune regole semplici che sono governate dal buon senso. Ogni giorno centinaia di migliaia di persone si presentano a centinaia di giudici e di pubblici ministeri. Ogni giorno un numero notevole di magistrati è sotto l’esame degli utenti della giustizia. I giudici sono ogni giorno giudicati dai cittadini. Ogni giorno ciascuno di noi contribuisce a definire l’immagine della magistratura. L’immagine che i cittadini avranno della giustizia non dipenderà da quello che di voi diranno i giornali, o i media o i partiti politici; dipenderà solo da voi. I giudici cialtroni, i pubblici ministeri superficiali, i giudici che trattano male le parti e i loro avvocati, quelli che non studiano le carte, i pavidi, attentano ogni giorno all’immagine della magistratura. E poi ci sono i contenuti delle nostre decisioni. Se decideremo senza preoccuparci di quello che domani diranno i giornali, i partiti,  la Confindustria o la Chiesa, ci sembrerà qualche volta di essere soli o incompresi. Ma è un errore, perchè i cittadini sentiranno che questi sono i giudici di cui c’è bisogno. Se non cederete al richiamo della popolarità o del potere, sarete riconosciuti come giusti, ma non nel giorno del giudizio universale, dove le regole del processo sono un po’ diverse, ma qui, ora, nella comunità in cui operate.

Tuttavia per realizzare la giustizia non basta decidere secondo coscienza. Bisogna anche operare una scelta di fondo, che sta scritta a caratteri indelebili nel nostro ordinamento. I magistrati hanno in mano un potere terribile, da far tremare quelli che sono più consapevoli. Possono toglierti la libertà, possono incidere sul patrimonio, possono rovinarti la vita. Un potere terribile che in ogni stato di diritto deve essere rigorosamente esercitato secondo le regole. Ma è decisivo sapere al servizio di chi verrà esercitato questo potere. Nella nostra Costituzione è indicata la direzione verso la quale questo potere dovrà essere esercitato: “….E’ compito della Repubblica  rimuovere gli ostacoli che limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini…”.Ecco, i giudici della Repubblica per primi hanno questo compito indeclinabile: rendere eguali quelli che le circostanze della vita hanno reso più deboli, più fragili,  più indifesi e meno eguali degli altri; realizzare l’eguaglianza nella straordinaria diversità che la vita propone; ridare pari dignità a quelli che le dinamiche sociali ed economiche hanno reso insopportabilmente diseguali. Questo è il compito principale del giudice, che riassume ai miei occhi tutti gli altri. Se non sapremo essere la garanzia dei più deboli, la nostra funzione sarà inutile. Coloro che posseggono la forza non hanno bisogno dei giudici, per la buona ragione che hanno gìà la forza per farsi valere. Dei giudici hanno invece un grande bisogno quelli che non hanno altra forza se non quella che concede loro la legge. Questo  è dunque il compito ineludibile del giudice secondo la nostra Costituzione: se lo dimenticheremo il nostro mestiere non saprà più di nulla.

E’ giunto il momento di concludere e di salutarvi con un abbraccio collettivo. E’ inutile promettere che vi ricorderò tutti, perché so che è difficile dimenticare. E a quelli che sono dispiaciuti perché è venuto il tempo di lasciarci,  vorrei dire che è meglio lasciarsi che non essersi mai incontrati.



Beniamino Deidda

(5 Novembre 2012)


28/11/2012

Articoli Correlati

Ssm

B. Deidda nel com. dir.

Discorso di saluto - Video