Civile
Registrazione e resoconto quinto seminario - La riforma della giustizia civile
Il 22 marzo 2023, dalle 15.30, si è svolto il quinto dei Seminari promossi da Magistratura Democratica sulla riforma del processo civile, con la partecipazione di oltre 110 persone collegate da remoto e dei presenti nella saletta della ANM, al sesto piano del Palazzaccio.
Nel corso del seminario, la cui registrazione è accessibile al link https://youtu.be/zVF9vxuqE0A (solo in formato audio a causa di un problema tecnico), proseguendo il percorso delle riflessioni che hanno costituito oggetto degli incontri precedenti, sono state esaminate diverse questioni relative alle controversie di lavoro.
Anche in apertura di questo seminario è stato ricordato che scopo di questi incontri non è quello di esprimere giudizi di valore sulla bontà del testo normativo, quanto invece di ricercare soluzioni interpretative funzionali per quanto possibile alla migliore gestione della riforma, pur nella consapevolezza che nessuno può ritenersi depositario della verità e che risultati definitivi o comunque più stabili potranno derivare solo dalla concreta applicazione della nuova normativa, solo se e quando sulle questioni controverse vi saranno pronunce delle sezioni unite della Cassazione, e solo se il confronto tra i diversi operatori (un confronto che anche questo ciclo di seminari si è proposto di stimolare e incentivare) sarà capace di tradursi nell'affermazione di pratiche e protocolli condivisi.
1. Considerazioni generali circa i riflessi determinati dalla riforma Cartabia ” sul processo del lavoro.
La riforma “Cartabia” del processo civile non ha modificato la dinamica complessiva del processo del lavoro nelle sue caratteristiche di oralità, concentrazione, regime di preclusioni e poteri officiosi del giudice. Di tale modello processuale sono state anzi confermate la perdurante validità e la fiducia che vi ripone il legislatore, il quale infatti ha ritenuto di estenderne alcune disposizioni (come quelle relative alla prima udienza in cui le parti sono tenute a comparire personalmente ed il giudice deve interrogarle ed esperire il tentativo di conciliazione) anche al processo “ordinario” di cognizione. Ed è stato osservato che proprio le nuove norme (in particolare la disciplina relativa alle impugnative dei licenziamenti) potrebbero costituire l'occasione per recuperare lo spirito originario della riforma del processo del lavoro, nella consapevolezza, ad esempio, di come la possibilità attribuita al giudice di disporre d'ufficio in qualunque momento l'ammissione di mezzi di prova anche fuori dai limiti stabiliti dal codice civile (con la sola eccezione del giuramento decisorio), fosse finalizzata a contrastare un'applicazione formalistica delle regole processuali ed
originasse dall'opportunità di supplire, ove necessario, persino alle deficienze della difesa tecnica della parte economicamente e socialmente più debole. Anche nella giurisprudenza della Corte di cassazione era stata affermata esplicitamente la necessità di garantire una tutela differenziata in ragione della particolare natura dei diritti in gioco, con conseguente contemperamento del rigoroso sistema delle preclusioni in nome delle esigenze della ricerca della verità materiale: sicché il giudice, ove reputi insufficienti le prove già acquisite, potrebbe esercitare i poteri officiosi pur in presenza di già verificatesi decadenze e preclusioni e pure in assenza di un'esplicita richiesta delle parti; né ciò metterebbe in discussione l’imparzialità del giudice giacché - come ha ricordato la Corte costituzionale - l’omologazione di situazioni diverse contrasta con il principio di uguaglianza.
2. La tutela contro i licenziamenti.
Le principali modifiche introdotte dalla riforma attengono alla tutela in tema di licenziamenti. licenziamenti.
a) Il definitivo superamento del c.d. rito Fornero e l’applicazione del rito “ordinario” del lavoro.
Il c. d. “rito Fornero” di cui alla legge n. 92/2012, che inizialmente era stato salutato con favore per le caratteristiche di celerità che l'avvicinavano al procedimento ex articolo 28 dello Statuto dei lavoratori, e che è stato supportato anche da orientamenti illuminanti della Cassazione, ha presto messo in luce criticità, tra cui in particolare quella relativa alla frammentazione sul piano processuale per le domande non strettamente connesse all'area della reintegrazione (con correlativa duplicazione di cause e di versamento di contributo unificato); le incertezze in ordine alle conseguenze derivanti dall'erronea scelta del rito, incertezze che avevano visto moltiplicarsi decisioni di nullità e inammissibilità dei ricorsi e che, per evitare decadenze, avevano indotto spesso a promuovere un’identica azione con il rito ordinario e con il rito speciale, salvo poi abbandonare quella che fosse risultata erronea; allungamento dei tempi processuali determinato dal fatto che alla prima fase seguiva quasi inevitabilmente quella dell’opposizione.
Tale legge – che proprio a causa delle rilevanti criticità riscontrate nella pratica applicativa aveva subito modifiche dapprima per effetto del d.lgs. n. 23/2015 (emanato in attuazione della legge n. 183/2014 sul “jobs act”1) e poi a seguito del d.lgs. n. 75/20172 - è stata definitivamente superata con la legge delega n. 206/2021 e con il d.lgs. di attuazione n. 149/2022, il quale ne ha abrogato espressamente l’art. 1, commi dal 47° al 69° contestualmente introducendo, nel capo I bis, gli art. 441 - bis (“Controversie in materia di licenziamento”), 441 - ter (“Licenziamento del socio della cooperativa”) e 441 - quater c.p.c. (“Licenziamento discriminatorio”), nonché dell’art. 144 - quinquies disp. att. c.p.c. (“Controversie in materia di licenziamento”), applicabili alle impugnative instaurate dopo
1 Art. 11: «Ai licenziamenti di cui al presente decreto non si applicano le disposizioni dei commi da 48 a 68 dell'articolo 1 della legge 28 giugno 2012, n. 92». Per effetto di tale modifica, si era venuta a creare una molteplicità di “binari” procedimentali, a seconda che l’impugnativa fosse stata instaurata: a) prima del 18 luglio 2012 (entrata in vigore della l. 92/2012), con conseguente applicazione del rito “ordinario” del lavoro; b) dopo il 18 luglio 2012 e con riferimento al licenziamento di lavoratori assunti anteriormente al 7 marzo 2015, con conseguente applicazione del rito specialissimo; c) con riferimento al licenziamento di lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, con conseguente applicazione del rito “ordinario” del lavoro.
2 C.d. “riforma Madìa” che, modificando alcune disposizioni contenute nel d.lgs. 165/2001, ha escluso l’applicabilità dell’art. 18 St. lav. nel pubblico impiego.
il 28 febbraio 2023 (art. 35, 1° comma, d.lgs. cit., come modificato dall’art. 1, 380° comma, della legge n. 197/2022). Vi è dunque, attualmente (anche se col tempo destinata a scomparire) la coesistenza di impugnative di licenziamento soggette al rito “Fornero”, di impugnative sottoposte al rito del “jobs act” e di impugnative disciplinate dall’insieme di norme costituenti il rito “accelerato” di cui all’art. 441 – bis e seguenti c.p.c., con un duplice “binario” in quanto: a) i procedimenti pendenti alla data del 28 febbraio 2023, sono assoggettati alle disposizioni anteriormente vigenti; b) i procedimenti iniziati successivamente a tale data, sono regolati dal rito riformato del lavoro, con il tradizionale regime improntato a rigide preclusioni e con l’attribuzione di una “corsia preferenziale” nel caso in cui vi sia anche domanda di condanna alla reintegrazione nel posto di lavoro.
b) Il “carattere prioritario” dell’impugnativa del licenziamento con domanda di reintegrazione.
A partire dal 1° marzo 2023, le peculiarità che contraddistinguono la trattazione e la decisione delle controversie in tema di licenziamento sono le seguenti: a) assegnazione di un “carattere prioritario rispetto alle altre pendenti sul ruolo del giudice, anche quando devono essere risolte questioni relative alla qualificazione del rapporto”, sempre che sia domandata contestualmente la reintegrazione nel posto di lavoro (art. 441 - bis, 1° comma c.p.c.); b) attribuzione al giudice del potere di ridurre i termini del procedimento fino alla metà, “tenuto conto delle circostanze esposte nel ricorso”, ferma restando la necessità che “tra la data di notificazione al convenuto o al terzo chiamato e quella della udienza di discussione” intercorra “un termine non minore di venti giorni e che, in tal caso, il termine per la costituzione del convenuto o del terzo chiamato” sia ridotto della metà (art. 441 - bis, 3° comma c.p.c.); c) attribuzione al giudice del potere di disporre all'udienza di discussione, “in relazione alle esigenze di celerità anche prospettate dalle parti”, la trattazione congiunta di eventuali domande connesse e riconvenzionali ovvero la loro separazione, “assicurando in ogni caso la concentrazione della fase istruttoria e di quella decisoria in relazione alle domande di reintegrazione nel posto di lavoro” e, a tal fine, riservando “particolari giorni, anche ravvicinati, nel calendario delle udienze” (art. 441 – bis, 4° comma c.p.c.); d) necessità di tenere conto, nella decisione delle controversie in parola, anche in appello e in cassazione, delle «medesime esigenze di celerità e di concentrazione».
Le novità in tal modo introdotte mirano ad imprimere una forte accelerazione ai giudizi di impugnativa del licenziamento, tutte le volte in cui l’attore domandi, ricorrendone i presupposti, anche la tutela reale (il che esclude che possa applicarsi la “corsia preferenziale” alle cause proposte dal datore di lavoro per la declaratoria di legittimità del licenziamento)3.
c) La riduzione dei termini. La riduzione dei termini di cui all’art. 441 - bis c.p.c. dovrebbe poter essere disposta già nel decreto di fissazione dell’udienza, con conseguente onere di immediata verifica da parte del giudice di quanto esposto dall’attore nella domanda introduttiva. Sebbene non perentorio,
3 É stato opportunamente rilevato che sono numerose le tipologie di controversie per le quali il legislatore prescrive corsie prioritarie: il che rischia di determinare intasamenti e di frustrare nei fatti la pur necessaria finalità acceleratoria perseguita per ciascuna di essa. Di qui la necessità di rigorose valutazioni in sede di redazione delle tabelle organizzative e dei programmi di gestione dell’ufficio, e l’esigenza di un’opera di attento e costante monitoraggio sull’andamento degli affari.
il termine di cinque giorni dal deposito del ricorso fissato dalla legge per l’emissione del decreto (art. 415, 2° comma, c.p.c.) appare alquanto ristretto. Al riguardo è stato osservato che: - il dimezzamento del termine di costituzione del convenuto (che deve avvenire cinque giorni prima dell’udienza di discussione) non sembra idoneo ad assicurare lo spazio per la predisposizione di una adeguata difesa, dal momento che egli potrebbe disporre di soli quindici giorni per lo svolgimento delle attività previste a pena di decadenza dall’art. 416 c.p.c. (ricerca e reperimento di un difensore; incontro con quest’ultimo per prospettare la questione; studio degli atti e predisposizione della difesa da parte del legale nel caso di accettazione dell’incarico). Si tratta di un favor lavoratoris forse giustificabile tenendo conto della “asimmetria” processuale tra le parti (nonostante il contrario avviso espresso dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 13 del 1977) prodotta dal riconoscimento a carico del ricorrente di analoghi oneri assertivi e asseverativi; - la fissazione del termine (minimo) di venti giorni tra la notificazione del ricorso e del decreto e l’udienza, e il dimezzamento del termine di costituzione del convenuto non appaiono compatibili con lo svolgimento della udienza di discussione in modalità “cartolare”. Si è poi osservato che, mentre il rito “Fornero” dettava termini fissi ed imponeva che venisse attuato un processo celere, le norme dell’art. 441 - bis c.p.c. si affidano alla discrezionalità totale del giudice, il quale, anche in relazione ad esigenze di celerità che siano state prospettate dal ricorrente, può (ma non è tenuto a) disporre l'accorciamento dei tempi, per cui anche una limitatissima anticipazione rispetto ai tempi medi di trattazione sarebbe sufficiente ad affermare che la direttiva della celerità è stata rispettata. Una interpretazione sistematica delle norme, funzionale all’esigenza di limitare un potere discrezionale altrimenti incontrollato, dovrebbe portare all’adozione di un criterio orientativo e di una regola organizzativa interna all’ufficio, in base ai quali – pur dovendosi tener conto delle diverse realtà e situazioni territoriali - in linea di massima il giudice, quando non ritiene di ridurre i termini fissati dalla legge, si attesti per i licenziamenti sui termini ordinari già previsti dal c.p.c. nel rito ordinario del lavoro. Peraltro, nelle sezioni lavoro di alcuni tribunali i magistrati hanno già sottoscritto verbali di riunioni ex art. 47 - quater ord. Giud, impegnandosi a trattare questo tipo di controversie nel termine massimo del due mesi, a concentrare la fase istruttoria e decisionale in 3/4 mesi con un monitoraggio e un aggiornamento costante nelle riunioni organizzative di sezione.
d) Cause connesse e domande riconvenzionali. Ai sensi dell’art. 441 - bis, quarto comma c.p.c., all’udienza di discussione il giudice può trattare congiuntamente le domande connesse e le riconvenzionali oppure separarle, in base alle ravvisate esigenze di celerità, eventualmente segnalate dalle parti. In ogni caso, come osservato, egli deve assicurare la concentrazione della fase istruttoria e di quella decisoria in relazione alle domande di reintegrazione nel posto di lavoro. La previsione di svolgimento del simultaneus processus per ragioni di connessione e quella, specularmente opposta, di separazione delle cause, non costituiscono novità, rientrando nelle prerogative ordinarie del giudice, se del caso esercitate su istanze delle parti (v. art. 103, 2° comma, c.p.c.; v. anche l’art. 151 disp. att. c.p.c.)4. In sostanza, la valutazione,
4 Sulla distinzione tra sentenze parziali, che decidono soltanto alcune delle domande cumulativamente proposte dalle parti, e sentenze non definitive, che possono essere oggetto di riserva di impugnazione, v. Cass., sez. un., 19 aprile 2021, n. 10242, in Foro it., 2021, I, 3226, e Cass.,
certamente discrezionale, del giudice risponderà pur sempre a un criterio di economia processuale (oltre che di giudizi, dal momento che la separazione delle cause moltiplica inevitabilmente le sedi di contenzioso e, quindi, potrà essere utilmente disposta solo nelle ipotesi in cui la trattazione congiunta avrebbe l’effetto di rallentare la causa che ha ad oggetto la domanda di reintegra)5, ma anche a una esigenza di adeguata ponderazione degli interessi in gioco. Nondimeno l’attuale quadro normativo affranca finalmente il giudice del lavoro dalla necessità di verificare l’“identicità dei fatti costitutivi” posti alla base delle ulteriori domande cumulate a quelle proposte in via principale e dalle intricate questioni interpretative che hanno caratterizzato il rito Fornero, ferma la necessità di valutare l’attinenza dei “fatti” posti a fondamento delle “ulteriori” domande al tema di indagine principale rappresentato dalla legittimità del licenziamento e della sussistenza dei presupposti per la reintegrazione.
e) La tutela cautelare d’urgenza.
Si ritiene che anche nel nuovo contesto normativo determinato dal d.lgs. n. 149/2022 sia possibile la richiesta di un provvedimento cautelare ante causam ai sensi dell’art. 669 - sexies, 2° comma, c.p.c. dal momento che la tutela cautelare, come insegnato anche dalla Corte costituzionale, è un elemento fondamentale ed irrinunciabile di ogni processo. La riduzione dei termini prevista dall’art. 441 – bis c.p.c., lungi dall’integrare il contenuto di un provvedimento di natura cautelare, costituisce unicamente il risultato della verifica da parte del giudice della contestuale proposizione della domanda di reintegrazione nell’atto introduttivo e della discrezionale valutazione delle ragioni di “urgenza” dedotte dalla parte ricorrente; ma l’efficacia acceleratoria in tal modo impressa al procedimento non fa venir meno l’eventuale utilità di un provvedimento ex art. 700 c.p.c. (anche ante causam) per le medesime ragioni già prospettate sotto il vigore del rito “Fornero”. Come, peraltro, è stato osservato, la necessità di accertare l’esistenza delle circostanze di fatto idonee ai sensi dell’art. 441 – bis c.p.c. a determinare la riduzione fino alla metà dei tempi del procedimento, potrebbe produrre l’effetto indiretto di evitare l’esigenza di ricorsi ex art. 700 in corso di causa.
sez. un., 22 dicembre 2015, n. 25774, in Giur. it., 2016, 1902 e 2407; in Riv. dir. proc., 2016, 202 e 1330; in Giusto processo civ., 2016, 1095. La prima ha ribadito la prevalenza degli indici di carattere formale desumibili dal contenuto intrinseco della stessa sentenza, quali la separazione della causa e la liquidazione delle spese di lite in relazione alla causa decisa. La seconda, sollecitata dalle critiche all’orientamento che si andava affermando, ha dichiarato ammissibile l’impugnazione contro la sentenza, che, pur risolvendo questioni senza decidere alcuna domanda, chiude il processo.
5 È stato fatto l’esempio di un giudizio in cui la domanda di accertamento della legittimità del licenziamento venga proposta insieme ad altre domande inerenti al rapporto di lavoro, e nel quale la decisione sul licenziamento può essere risolta in rito a causa ad esempio di una decadenza. In tal caso la separazione della causa di licenziamento può dimostrarsi utile ed efficace perché consente di definire il giudizio relativo alla domanda di reintegra molto prima della decisione sulle altre domande che potrebbero aver bisogno, in ipotesi, di un’istruttoria magari anche lunga e complessa.
f) Le questioni organizzative.
Ogni riforma determina un impatto sugli assetti organizzativi, e ciò vale, naturalmente, anche con riguardo alle innovazioni introdotte dalla riforma “Cartabia”.
Per garantire il rispetto del carattere prioritario delle controversie in tema di licenziamento, è previsto che trattazione e decisione si svolgano in “particolari giorni, anche ravvicinati, nel calendario delle udienze” (novellato art. 441 - bis, quarto comma c.p.c., che riproduce una prescrizione già contemplata dall’art. 1, 65° e 66° comma, della legge n. 92/2012), e in base al novellato art. 144 - quinquies disp. att. c.p.c. sono prescritti specifici oneri di verifica e controllo in capo al presidente di sezione e al dirigente dell’ufficio giudiziario.
Tali disposizioni vanno poi coordinate con quelle ordinamentali di carattere più generale, per cui:
- ai sensi dell’art. 37, comma 5 - quater, d.l. n. 98/2011, conv. con mod. nella legge n. 111/ 2011, poi modificato dall’art. 14 della legge n. 71/ 2022, in vigore dal 21 giugno 2022, il presidente di sezione è chiamato a segnalare immediatamente al capo dell'ufficio giudiziario: «a) la presenza di gravi e reiterati ritardi da parte di uno o più magistrati della sezione, indicandone le cause «interessato, il quale deve parimenti indicarne le cause; b) il verificarsi di un rilevante aumento delle pendenze della sezione, indicandone le cause e trasmettendo la segnalazione a tutti i magistrati della sezione, i quali possono parimenti indicarne le cause»; - mediante il programma di gestione – strumento fondamentale “per formulare una diagnosi ed una prognosi sull’andamento dell’ufficio e per programmare i flussi di lavoro e fissare gli obiettivi di rendimento qualitativo dei singoli uffici”, anche in vista del perseguimento degli obiettivi fissati dal PNRR in termini di efficacia ed efficienza degli uffici – il capo dell'ufficio giudiziario determina, tra l’altro, “l'ordine di priorità nella trattazione dei procedimenti pendenti, individuati secondo criteri oggettivi ed omogenei che tengano conto della durata della causa, anche con riferimento agli eventuali gradi di giudizio precedenti, nonché della natura e del valore della stessa” (art 37, 1° comma, lett. b)); - l’Ufficio per il processo, da ultimo riordinato con il d.lgs. n. 151/ 2022, è destinato a svolgere un ruolo di fondamentale importanza sul piano organizzativo, anche se sono da chiarire definitivamente le “specifiche” e i “contenuti professionali” delle attività dei c.d. “addetti all’UPP”, specialmente con riguardo al compito di provvedere alla “segnalazione all'esperto coordinatore o al magistrato assegnatario dei fascicoli che presentino caratteri di priorità di trattazione”, previsto dall’ALL. II del d.l. n. 80/2021 conv. nella legge n. 113/2021 ma non ripetuto nel d.lgs. n. 151 cit.; - il menzionato art. 144 - quinquies c.p.c., inoltre, stabilisce che “in ciascun ufficio giudiziario sono effettuate estrazioni statistiche trimestrali che consentono di valutare la durata media dei processi di cui all’articolo 441 - bis del codice, in confronto con la durata degli altri processi in materia di lavoro”.
Dall’insieme di tali disposizioni derivano conseguenze:
* sul piano dell’assetto tabellare degli uffici giudiziari;
*con riguardo ai compiti dei capi degli uffici e dei presidenti di sezione, ed ai doveri di autoorganizzazione di ogni magistrato;
* in riferimento alle responsabilità e ai compiti propri del ministero della giustizia.
a) Sotto il primo profilo, occorre considerare l’ipotesi in cui la riforma ha introdotto istituti giuridici prima non esistenti (come ad es. il comitato per la formazione e la tenuta dell'elenco dei professionisti che provvedono alle operazioni di vendita dei beni esecutati di cui all’art. 179 - ter disp. att. c.p.c. o il comitato per la formazione e la revisione dell'elenco dei mediatori familiari), che determinano per alcuni magistrati dell’ufficio l’attribuzione di compiti
aggiuntivi, con conseguente incidenza sulla relativa posizione tabellare, ovvero ha comunque inciso sulle funzioni devolute ai magistrati in base all’assetto tabellare dell’ufficio, come ad esempio nel caso dell’udienza presidenziale in materia di separazioni consensuali e contenziose o in materia di divorzi sia contenziosi sia a domanda congiunta. Poiché, infatti, l’udienza presidenziale è stata cancellata dalla riforma, in tali casi sarà necessario modificare le attribuzioni riguardo ad essa già devolute al presidente del tribunale o al magistrato (normalmente il presidente della sezione che si occupa della materia di famiglia) da lui delegato e lo strumento per attuare la modifica sarà ancora una volta quello della variazione tabellare.
In proposito è stata rilevata una discrepanza tra le disposizioni della riforma ormai in vigore, e le regole della vigente circolare sulla formazione delle tabelle degli uffici giudicanti, in base alle quali i dirigenti degli uffici giudiziari, in casi eccezionali e in via di urgenza, possono adottare provvedimenti di modifica tabellare immediatamente esecutivi con esclusivo riguardo alla assegnazione dei magistrati, e non anche con riferimento alle assegnazioni degli affari, relativamente alle quali (sempre sul presupposto che si tratti di casi eccezionali e urgenti) l’esecutività può essere conseguita solo a seguito di parere favorevole unanime del Consiglio giudiziario o, in mancanza, di una delibera di approvazione da parte del Consiglio.
Una simile evenienza probabilmente avrebbe potuto essere scongiurata con l’adozione di una proposta di variazione tabellare tempestivamente adottata in vista dell’entrata in vigore della riforma. In ogni caso, considerato che la legge è fonte primaria rispetto alle circolari del Csm, è da ritenere condivisibile l’opinione secondo cui i dirigenti degli uffici, ove non abbiano già provveduto al riguardo, possano e debbano farlo con l’adozione di provvedimenti di variazione immediatamente esecutivi. b) La “calendarizzazione” del processo, che la legge - come osservato - prescrive ove il giudice ritenga opportuno la trattazione congiunta delle domande, e che in ogni caso deve assicurare la concentrazione della fase istruttoria e di quella decisoria, si è rivelata nella pratica applicativa un importante strumento di responsabilizzazione del giudice e delle parti nello svolgimento delle attività processuali, ed un fattore di coinvolgimento nella logica del buon funzionamento del processo.
Anche la calendarizzazione in parola ha evidenti riflessi sul piano organizzativo; ed è da presumere che il Csm nella prossima circolare dedicata alla materia inserirà una specifica direttiva volta a far sì che, nelle proposte tabellari, si tenga conto della necessità di riservare apposite udienze alla trattazione delle controversie di licenziamento con domanda di reintegrazione, anche se la direttiva non potrà essere tale da predeterminare essa stessa la calendarizzazione, ma avrà l’elasticità necessaria per lasciare spazio alle soluzioni organizzative che sembreranno più congrue ed opportune rispetto alle situazioni dei singoli uffici.
La lettera dell’art. 441 – bis c.p.c. non sembra incompatibile con la possibilità che, anziché giorni riservati esclusivamente alla trattazione di tale tipologia di controversie, siano individuati - nei giorni tabellarmente previsti per la trattazione delle cause di lavoro – apposite fasce orarie dedicate, tenuto altresì conto della circostanza che la sperimentazione di udienze ravvicinate già praticata nel vigore del rito “Fornero”, ha creato a volte l’inconveniente di vincolare udienze rimaste poi inutilizzate.
L’importante è comunque che le scelte organizzative in concreto adottate siano tali da non frustrare o rendere più difficoltoso il conseguimento della finalità acceleratorie perseguite dalla norma. Ed in proposito è stato opportunamente rilevato che la possibilità di individuare le scelte organizzative più corrispondenti alle esigenze di funzionamento del servizio è affidata non solo, ovviamente e in primo luogo, alla valutazione dei singoli magistrati ed al dovere di autorganizzazione ad essi spettante, ma coinvolge l’intera sezione in un impegno gestionale alla cui esplicazione potranno dimostrarsi quanto mai utili le
riunioni ex art. 47 - quater ord. giud. nonché un raccordo con la cancelleria e con le articolazioni amministrative e di supporto dell’ufficio.
Anche nei casi in cui l’interpretazione del singolo magistrato è sufficiente a risolvere problemi di attuazione della nuova normativa, il coinvolgimento dell’intera sezione nell’attività di ricognizione dell’istituto potrà rivelarsi un fattore di maggiore affidabilità e, insieme, costituire un veicolo di conoscibilità degli indirizzi giurisprudenziali adottati, tanto più efficace se tradotto in apposite note del capo dell'ufficio accessibili al Consiglio dell'ordine degli avvocati e, più in generale, agli utenti del territorio mediante inserimento nel sito web; né vanno trascurate sia l’utilità di note - non vincolanti, ma di semplice raccomandazione - emanate dai magistrati dirigenti con riferimento all’ambito applicativo di determinati istituti (come è accaduto ad esempio in alcuni uffici con riferimento all’art. 35 del d. l. n. 13/2023, che ha disposto il deposito dei provvedimenti del giudice e dei verbali di udienza con modalità telematica), sia l’opportunità di linee di indirizzo da parte degli stessi dirigenti nei casi in cui l’esplicazione dei servizi amministrativi possa avere riflessi sull’attività giudiziaria (come per fare un altro esempio è avvenuto – allo scopo di superare l’impasse delle cancellerie che dal 1° marzo 2023 non facevano più spedizioni in forma esecutiva né rilasciavano attestazioni di conformità in vista dell'esecuzione - a seguito dell’abrogazione dell'articolo 475 c.p.c. relativo alla spedizione in forma esecutiva dei provvedimenti aventi attitudine a diventare titoli esecutivi).
Ed è infine superfluo sottolineare quanto alla logica della buona organizzazione possano giovare, tanto più a fronte di novità legislative, momenti di confronto con l’avvocatura, anche in vista dell’elaborazione di eventuali protocolli applicativi nello svolgimento dell’attività processuale.
Viene qui in gioco un aspetto specifico di quella cultura dialettica cui in tanti uffici giudiziari hanno dato impulso le esperienze virtuose di autoriforma, e che lo stesso Csm ha inteso incentivare con le proprie circolari in materia di organizzazione degli uffici giudiziari, radicandosi in tal modo quella pratica del confronto da cui probabilmente – più che da occhiute visioni sanzionatorie come quelle che hanno ispirato la riforma dell’ordinamento giudiziario – dipenderà anche l’uso accorto dei poteri discrezionali del giudice nel governo dei tempi del processo, da sottrarre ad un giustamente temuto soggettivismo incontrollato e ricondurre ad un quadro di maggiore razionalità e coerenza organizzativa.
È tuttavia da evidenziare come l’attuale mancanza negli applicativi ministeriali di un “codice oggetto” per i licenziamenti ex articolo 441 - bis c.p.c., renda più difficoltose non soltanto la calendarizzazione delle controversie di cui si sta parlando, ma anche le verifiche che l’art. 144 - quinquies c.p.c. prescrive, oltre che con possibili (anche se non auspicabili) risvolti sanzionatori, altresì ai fini delle estrazioni statistiche trimestrali necessarie per valutare la durata media dei processi in considerazione in confronto con la durata degli altri processi in materia di lavoro; con la conseguenza che in alcuni uffici si sta facendo ricorso all’uso di appunti o di registri cartacei per supplire in qualche modo alla lacuna. Ma è chiaro che il funzionamento del sistema non può fare affidamento su rimedi artigianali e sulla sola buona volontà degli operatori.
È quindi necessario che la DGSIA provveda al più preso ad assicurare gli strumenti necessari affinché possa provvedersi in modo organico e sistematico alla raccolta di dati essenziali per la programmazione del lavoro giudiziario e l’organizzazione dei ruoli dei singoli magistrati.
3. Le controversie in materia di licenziamento del socio lavoratore di cooperativa.
La questione relativa all’individuazione del rito applicabile e del giudice competente per le controversie concernenti il lavoro dei soci di cooperativa era in attesa di una netta soluzione normativa, anche perché il succedersi di ripetuti capovolgimenti di giurisprudenza e di disordinate modifiche di legge negli ultimi vent’anni (legge n. 142/2001; legge n. 30/2003; d.lgs. n. 5/2003; legge n. 69/2009; d.l. n. 1/2012, conv. con modif. in legge n. 27/2012 relativa al “Tribunale delle imprese”) non aveva contribuito al raggiungimento di risultati soddisfacenti in termini di certezza del diritto.
È noto che il modello “mutualistico” della società cooperativa di lavoro immaginato dall’art. 45 della Costituzione (in base al quale un gruppo di lavoratori si associano a fini d’impresa e conseguire condizioni di lavoro migliori, facendo coincidere almeno in teoria capitale e lavoro, nell’ambito di un rapporto che per definizione è paritario e non sbilanciato), è stato progressivamente ridimensionato dalla realtà economica, per cui oggi la maggior parte delle cooperative è costituita da reti di consorzi che coinvolgono centinaia o migliaia di lavoratori ai quali all’atto dell'assunzione viene fatta firmare la domanda di ammissione e viene trattenuta la quota, che partecipano a gare d’appalto e, una volta vinta la gara, affidano i lavori a una delle cooperative del gruppo. Spesso poi nel corso dell’appalto cambia anche la cooperativa ed il lavoratore – seppure tecnicamente come socio – passa alle dipendenze delle varie cooperative che si succedono nell’appalto.
Si tratta di una realtà efficacemente riassunta dalle Sezioni Unite della Cassazione nella sentenza 27436 del 2017 in cui si parla della espansione del fenomeno della cooperativa spuria e fraudolenta. L’esigenza di porre un freno agli abusi insiti nello strumento della cooperativa portò il legislatore, con l’emanazione della legge n. 142/2001, ad estendere al socio di cooperativa, con le eccezioni in essa previste, lo Statuto dei lavoratori nonché a prevedere l'obbligo di retribuire i soci lavoratori in misura non inferiore a quella prevista dal contratto collettivo di categoria.
Alla stregua della duplicità di posizioni ravvisabili nella figura del socio lavoratore (l’una facente capo al contratto associativo, l’altra al contratto di lavoro), si era venuta a configurare una duplice competenza, rispettivamente del tribunale delle imprese e del giudice del lavoro.
L’esigenza di trovare un coordinamento al riguardo aveva portato ad affermare, ad esito di un lungo percorso giurisprudenziale avallato anche dalla Corte di cassazione, l'applicabilità dell'articolo 40 c.p.c. e quindi a ritenere, ancor prima della riforma, che davanti al giudice del lavoro fossero cumulabili due processi, quello per l'esclusione ed il processo relativo al licenziamento. Questa soluzione è stata infine recepita dal legislatore.
L’art. 1, 11° comma, lett. b), della legge delega n. 206/2021, al fine di superare ogni incertezza applicativa, ha prescritto infatti che fossero assoggettate al rito di cui agli art. 409 ss. c.p.c. tutte ”le azioni di impugnazione dei licenziamenti dei soci delle cooperative”, anche nel caso in cui ne conseguisse “la cessazione del rapporto associativo” (così peraltro alterando la relazione tra rapporto di lavoro e rapporto associativo, dal momento che alla cessazione del rapporto di lavoro non “consegue” la cessazione di quello associativo, ma è dall’esclusione del socio che consegue, ope legis, l’estinzione del rapporto lavorativo); ed in base al novellato art. 441 - ter c.p.c., intitolato “licenziamento del socio della cooperativa”, “le controversie aventi ad oggetto l’impugnazione dei licenziamenti dei soci delle cooperative sono assoggettate alle norme di cui agli articoli 409 e seguenti e, in tali casi, il giudice decide anche sulle questioni relative al rapporto associativo eventualmente proposte. Il giudice del lavoro decide sul rapporto di lavoro e sul rapporto associativo,
altresì, nei casi in cui la cessazione del rapporto di lavoro deriva dalla cessazione del rapporto associativo”.
Sul piano della formulazione normativa, è stata sottolineata l’improprietà dell’espressione usata dal legislatore, sul rilievo che di “licenziamento” del socio lavoratore di cooperativa non dovrebbe più parlarsi in quanto la legge n. 142/2001, che fondava il rapporto sulla stipulazione dei menzionati due contratti , è stata poi modificata dalla legge n. 30/2003 con eliminazione di qualsiasi riferimento al licenziamento e con la conseguenza, appena rilevata, che il rapporto di lavoro viene ad estinguersi ope legis per effetto dell’esclusione del socio dalla società secondo le norme del c.c.; né sarebbe sistematicamente appropriato ipotizzare il mero licenziamento, giacché nella configurazione giuridica del socio lavoratore il lavoro è strettamente legato all’esigenza di raggiungere il fine mutualistico previsto dalla legge o - per usare le parole della ricordata sentenza n. 27436/2017 della Cassazione - nella sostanza economica la rilevanza della prestazione di lavoro è coessenziale al contratto sociale ed allo sviluppo del rapporto che ne deriva. La rubrica della norma avrebbe dovuto essere dunque intitolata, più correttamente, alla esclusione del socio dalla società.
Sul piano interpretativo, si osserva che:
a) ove comunque venga disposto il licenziamento del socio senza previa o contestuale esclusione, l’impugnativa deve essere proposta innanzi al tribunale in funzione di giudice del lavoro nel duplice termine decadenziale (v. art. 3 della legge n. 604/1966) introdotto dal c.d. collegato lavoro di cui alla legge n. 183/2010 e successivamente confermato seppur con modifica nella misura (art. 1, 38° comma, della legge n. 92/2012). Il rito applicabile - abrogato ormai il c.d. rito Fornero e non essendovi più ragione di distinguere tra lavoratori assunti prima e lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 - è quello di cui agli art. 414 ss. c.p.c. In base alla lettera dell’art. 441 - ter c.p.c., allorché sia impugnato il licenziamento, il giudice del lavoro «decide anche» sulle questioni relative al rapporto associativo «eventualmente proposte»; ma, poiché il (solo) licenziamento non fa venir meno il rapporto associativo, non è chiaro quale sia l’interesse del socio lavoratore licenziato e quale quello della società a proporre questioni attinenti al rapporto associativo. b) Qualora con un’unica delibera siano disposti (presumibilmente sulla base dei medesimi motivi) tanto l’esclusione quanto il licenziamento, occorre ulteriormente distinguere: * se viene impugnato (innanzi al giudice del lavoro) il solo licenziamento e non anche l’esclusione, l’effetto espulsivo dalla compagine sociale deve intendersi ormai stabilizzato per inutile decorrenza del termine ex art. 2533 c.c. Secondo l’orientamento della Corte di cassazione, in tal caso non è possibile ottenere la restituzione nel posto di lavoro neppure a seguito dell’accertamento incidenter tantum dell’illegittimità dell’esclusione, bensì soltanto il risarcimento dei danni6; * se la delibera venisse opposta solo con riferimento all’esclusione, potrebbero sorgere dubbi in ordine al rito applicabile. Escluso che la controversia possa essere devoluta al tribunale delle imprese e che per essa si debba seguire il rito ordinario, l’unico modo per restituire coerenza al sistema e rispettare la ratio della norma (dove è scritto che “il giudice del lavoro decide sul rapporto di lavoro e sul rapporto associativo, altresì, nei casi in cui la cessazione del rapporto di lavoro deriva dalla cessazione del rapporto associativo”) sembrerebbe quello di affermarne la spettanza al giudice del lavoro con applicabilità del rito di cui agli art. 414 ss. c.p.c., ma senza la necessità di osservare il duplice termine decadenziale; * ove con un unico atto vengano proposte sia l’opposizione alla delibera di esclusione sia l’impugnazione del licenziamento, la cognizione dovrebbe spettare senz’altro al tribunale in funzione di giudice del lavoro e il rito applicabile dovrebbe essere quello del lavoro, non
6 È questa la soluzione seguita dalla richiamata sentenza n. 27436/2017.
tanto ai sensi dell’art. 40, 3° comma, c.p.c., quanto proprio in virtù dell’art. 441 - ter in esame; * se, infine, l’impugnativa del licenziamento e l’opposizione alla delibera di esclusione vengano proposte autonomamente innanzi a giudici diversi (rispettivamente, tribunale delle imprese e giudice del lavoro), si dovrebbe disporre il simultaneus processus innanzi al giudice del lavoro per le stesse ragioni di cui al punto che precede. In alternativa, si potrebbe ipotizzare la sospensione del processo dipendente (quello sull’impugnativa del licenziamento) in attesa della definizione del processo sulla causa pregiudiziale (quello di opposizione alla delibera di esclusione), in applicazione dell’art. 295 c.p.c., anche se tale soluzione, per l’allungamento dei tempi processuali che determina, non sembra da prediligere. Ci si è domandati se con riguardo alle controversie aventi ad oggetto l’esclusione del socio possano trovare applicazione le prescrizioni di priorità stabilite dall’art. 441 - bis c.p.c. Secondo una prima opinione, l’applicabilità sarebbe da escludere, perché tale norma si riferisce letteralmente al licenziamento, e non all’esclusione, mentre se viene impugnato il solo licenziamento e non anche l’esclusione, al socio di cooperativa, come ricordato, spetta una tutela di carattere unicamente indennitario.
Secondo un’altra interpretazione, invece, al quesito bisognerebbe dare risposta affermativa sia quando si tratta di impugnazione del licenziamento del socio con richiesta di reintegrazione, sia quando venga impugnata la delibera di esclusione (che determina la cessazione oltre che del rapporto associativo anche del rapporto di lavoro) perché anche in tal caso la tutela richiesta, se non reintegratoria, è comunque tale da ripristinare il rapporto.
Peraltro, il problema – come è stato osservato - sarebbe facilmente superabile con un uso oculato della discrezionalità del giudice nel valutare l’urgenza delle cause e la priorità delle une rispetto alle altre.
È stato infine osservato che non si ravvisano ostacoli quanto all’applicabilità degli artt. 441 – bis e ss c.p.c. ai licenziamenti nel pubblico impiego, mentre il rito non è applicabile (come già detto) con riguardo alle azioni di accertamento del datore di lavoro, non solo perché esse non contengono domanda di reintegra, ma anche perché il datore di lavoro potrebbe tranquillamente attendere la scadenza del doppio termine di decadenza senza necessità di intentare alcuna azione che il più delle volte è diretta ad identificare un giudice particolarmente vicino dal punto di vista del territorio.
4. I licenziamenti discriminatori.
L’art. 441-quater c.p.c. dispone che “Le azioni di nullità dei licenziamenti discriminatori, ove non siano proposte con ricorso ai sensi dell'articolo 414, possono essere introdotte, ricorrendone i presupposti, con i riti speciali. La proposizione della domanda relativa alla nullità del licenziamento discriminatorio e alle sue conseguenze, nell'una o nell'altra forma, preclude la possibilità di agire successivamente in giudizio con rito diverso per quella stessa domanda”.
Come si desume dal tenore della norma, i lavoratori e le lavoratrici che denuncino quale atto discriminatorio un licenziamento hanno la possibilità di avvalersi sia del nuovo rito accelerato previsto dai novellati 441 - bis e seguenti del codice di rito, sia dei riti speciali in materia di discriminazioni (quello previsto per la generalità delle discriminazioni dall’art. 28 del d.lgs. n. 150/2011, ed il rito previsto per le discriminazioni di genere in materia di lavoro dagli artt. 36 e seguenti del Codice delle pari opportunità di cui al d. lgs. n. 198/2006).
La possibilità di tale percorso alternativo, ora riconosciuto espressamente dalla legge, era già stata affermata in via interpretativa nel vigore del rito “Fornero”.
Si riteneva infatti che, pur in costanza del rito specifico previsto dalla l. n. 92/2012 (pacificamente obbligatorio per le impugnative di licenziamenti rientranti nell’ambito di applicazione dell’art. 18 della l. n. 300/1970), allorché fosse stato denunciato come discriminatorio un licenziamento a norma dell’art. 28 del d.lgs. n. 150/2011 o delle disposizioni processuali del codice delle pari opportunità, la domanda dell’attore fosse da interpretare nel senso di avere ad oggetto non la reintegrazione ex art. 18 della legge n. 300/1970 (ormai preclusa, atteso il carattere necessario del rito previsto dalla legge n. 92/2012), quanto invece la declaratoria di nullità/inefficacia del licenziamento, domandata non in via autonoma, ma quale conseguenza del previo accertamento della discriminazione e quale misura necessaria alla rimozione della situazione illecita, secondo uno schema analogo a quello dell’azione ex art. 28 della legge n. 300/1970 allorché il comportamento antisindacale lamentato è costituito dal licenziamento di un determinato lavoratore e la rimozione degli effetti della condotta vietata comporta la riammissione del lavoratore in servizio.
Questa ricostruzione potrebbe non essere rimasta estranea alla scelta legislativa sottesa all’altra disposizione dell’art. 441 – quater c.p.c., in base alla quale “la proposizione della domanda relativa alla nullità del licenziamento discriminatorio e alle sue conseguenze, nell'una o nell'altra forma, preclude la possibilità di agire successivamente in giudizio con rito diverso per quella stessa domanda”. L’opzione del legislatore (che evidentemente ha inteso privilegiare piuttosto l’effetto pratico delle due azioni, rappresentato nell’uno e nell’altro caso dal ripristino della funzionalità del rapporto di lavoro) è stata quindi quella di configurare i due riti come entrambi accessibili, ma tra di loro alternativi.
Si è osservato che, di fronte a questa scelta legislativa, è altamente probabile che lo spazio dei riti speciali nelle impugnazioni dei licenziamenti assunti come discriminatori continuerà a restare modesto - come già accadeva nel periodo di vigenza della legge “Fornero” - per una serie di vantaggi offerti dal rito “accelerato” introdotto dal novellato art. 441 – bis c.p.c. della riforma. Esso, infatti, consente di proporre con riguardo al provvedimento espulsivo censure anche diverse da quelle relative alla discriminazione, e ciò ne costituisce una indubbia e significativa utilità. Peraltro, anche nell’ambito di tale rito restano accessibili per i lavoratori e le lavoratrici gli strumenti più efficaci di tutela previsti dal diritto antidiscriminatorio, a partire da quello (probabilmente il più efficace di tutti) relativo all’onere della prova, da ritenere attinente - più che alle regole processuali e ad uno specifico modello di processo - ai connotati sostanziali della tutela antidiscriminatoria. In tal senso, infatti, si era già espresso il giudice di legittimità che nell’ambito di un giudizio ex art. 414 c.p.c. in cui si discuteva di una discriminazione di genere, con la sentenza n. 23286/2016 ha reputato applicabile anche alle molestie il regime dell’onere della prova descritto dall’art. 40 del d. lgs. n. 198/2006. E ad identica conclusione dovrebbe pervenirsi con riguardo alla rimozione delle discriminazioni e all’ordine di pubblicazione della sentenza di condanna, forme di tutela che partecipano esse pure del corredo di garanzie proprie delle posizioni soggettive protette dal diritto antidiscriminatorio e che, quindi, dovrebbero trovare applicazione quale che sia il rito prescelto per far valere le discriminazioni.
Un ulteriore vantaggio offerto dal rito “ordinario” introdotto dalla riforma attiene ai casi in cui il carattere discriminatorio del licenziamento venga dedotto in relazione ad una pluralità di fattori, e cioè ai casi di discriminazioni multiple, una delle quali costituita da quella di genere. La competenza territoriale, infatti, è disciplinata in modo diverso nel codice delle pari opportunità, ove si fa riferimento al luogo in cui è avvenuto il comportamento denunciato, e nell’art. 28 del d. lgs. n. 150/2011, che regola la competenza avendo riguardo al domicilio del ricorrente; il che rende arduo dedurre entrambe queste discriminazioni se riferite alla stessa fattispecie (l’esempio più classico è il licenziamento di una lavoratrice che non intenda dismettere sul luogo di lavoro il velo). Quando si agisca, invece, secondo le norme del codice di rito, la competenza sarà comunque disciplinata dall’art. 413 c.p.c.
Infine, il rito “accelerato” dei licenziamenti previsto dalla riforma deve essere connotato dalle peculiari esigenze di celerità più sopra indicate anche nei gradi successivi al primo, esigenze che invece, allorché si agisca con il rito ordinario delle discriminazioni previsto dall’art. 28 d. lgs. n. 150/2011, non caratterizzeranno il giudizio d’appello in cui troveranno applicazione le norme del rito ordinario.
5. L’applicabilità alle controversie di lavoro del novellato art. 127 – ter c.p.c.
Mentre è condivisa la tesi dell’applicabilità anche alle controversie di lavoro dell’art. 127-bis c.p.c. (udienze mediante collegamento da remoto), che non fa venir meno – pur attenuandola - la caratteristica del confronto contestuale tra le parti, e si dimostra particolarmente utile, anche sotto il profilo del risparmio delle spese, quando l’ufficio giudiziario innanzi al quale si svolge il processo è distante dal luogo di residenza delle parti o dalla sede dei difensori, non esiste invece convergenza di opinioni per quanto concerne la norma sulla trattazione scritta di cui al novellato art. 127-ter c.p.c., essendo diffusa la tesi che tale forma di trattazione contrasterebbe con l’oralità cui deve essere improntato il rito del lavoro. Si è tuttavia osservato, in contrario, che il rito in considerazione non riguarda soltanto le controversie di lavoro, ma anche quelle di assistenza e previdenza dove il contenzioso è solo documentale, oltre che una fascia molto ampia di controversie di varia natura (cause locatizie, agrarie, opposizioni ad ordinanze-ingiunzioni già previste dall’art. 22 l. n. 689/1981 ed a quelle regolate dal codice della strada; in materia di stupefacenti e di protezione dei dati personali; in tema di provvedimenti di recupero degli aiuti di Stato, di registro dei protesti e riabilitazione del debitore protestato etc.) relativamente alle quali le esigenze di oralità non sono certo maggiori di quelle che possono ravvisarsi in qualunque processo “ordinario”.
Peraltro, anche con riguardo alle controversie di lavoro in senso stretto la trattazione scritta ex art. 127-ter c.p.c. (che rappresenta un semplice strumento di duttilità del processo, da utilizzare sempre in relazione alle circostanze del caso concreto e che può dimostrarsi utile specie in contesti caratterizzati da gravosi carichi di lavoro)7 non sembra poter essere esclusa in tutti i casi in cui l’oralità non costituisce una caratteristica intrinseca dell’adempimento di determinate attività processuali (quali, ad esempio, la prima udienza con la comparizione delle parti, il tentativo di conciliazione o altre attività che non richiedono la presenza di soggetti diversi dalle parti, dai difensori e dagli ausiliari del giudice per le quali l’oralità è connaturale); e la stessa modifica dell'articolo 430 c.p.c., che non può avere senso se riferito al rito Fornero abrogato dalla stessa riforma che quella modifica ha introdotto, starebbe a dimostrare che il legislatore non ha inteso escludere la decisione della causa con trattazione scritta per le controversie di lavoro.
Anche con riguardo alla norma in discussione è stato sottolineato il grave inconveniente derivante dal mancato aggiornamento degli applicativi ministeriali necessari per poter scaricare le sentenze emesse a seguito di trattazione scritta, ciò che ha creato difficoltà e dato origine anche ad atteggiamenti oppositivi da parte delle cancellerie, rendendo necessarie specifiche autorizzazioni da parte dei presidenti di sezione e di tribunale. Si tratta di un’ulteriore lacuna (e di un’altra “interferenza” ministeriale nel campo proprio dell’attività giurisdizionale) che la stessa ANM ha avuto modo di evidenziare in un’apposita interlocuzione con la DGSIA, ed alla quale è auspicabile venga posto rimedio al più presto.
7 O in periodi di emergenza come quello determinato dal Covid-19.
6. Il processo d’appello.
Per quanto concerne il giudizio in materia di appello (novellati artt. 434, 436-bis, 437, 438 c.p.c., applicabili alle impugnazioni proposte successivamente al 28 febbraio 2023) è stato ribadito che il riferimento ai requisiti di chiarezza, sinteticità e specificità di cui all’art. 434, primo comma c.p.c. deve essere interpretato nel senso che l’inammissibilità può essere pronunciata solo con riguardo alle impugnazioni inidonee a far comprendere le doglianze mosse alla sentenza impugnata (cfr. più ampiamente, il resoconto del seminario sulle impugnazioni del 15 febbraio 2023) anche perché l’inciso “a pena di inammissibilità” sembra riferito alla necessaria indicazione, per ciascuno dei motivi di appello, dei tre requisiti indicati nella parte successiva della norma e, cioè, del capo della decisione impugnato, delle censure proposte e delle violazioni di legge denunciate. Si è ritenuto di poter desumere un argomento favorevole a tale conclusione anche dal novellato art. 46, commi 4 e 5, disp. att. c.p.c.8; ma occorre precisare che tale norma non si riferisce ai requisiti di ammissibilità delle impugnazioni, quanto invece all'uso dei modelli che saranno predisposti dal ministero della giustizia dopo aver sentito il Consiglio superiore della magistratura e il Consiglio nazionale forense.
L’art. 431 c.p.c. non è stato modificato: resta quindi invariata la regola del 2° comma per cui “il giudice di appello può disporre con ordinanza non impugnabile che l’esecuzione sia sospesa quando dalla stessa possa derivare all’altra parte gravissimo danno”. La norma riguarda le sentenze “che pronunciano condanna a favore del lavoratore per crediti derivanti dai rapporti di cui all’articolo 409” (1° comma) e consente la sospensione dell’esecuzione, non dell’efficacia esecutiva della sentenza, con la conseguenza che l’istanza di sospensione presentata prima dell’inizio dell’esecuzione (vale a dire, prima del pignoramento: v. art. 491 c.p.c.) è inammissibile.
Invece, per “le sentenze che pronunciano condanna a favore del datore di lavoro”, il 5° comma dell’art. 431 rinvia alla disciplina degli artt. 282 e 283 c.p.c.; e il novellato art. 283 prevede che l’istanza di sospensione può essere proposta “o riproposta nel corso del giudizio di appello se si verificano mutamenti nelle circostanze, che devono essere specificamente indicati nel ricorso, a pena di inammissibilità”. Resta per contro invariato il 6° comma dell’art. 431 c.p.c. ove è previsto - al pari di quanto dispone il 2° comma - che “il giudice di appello può disporre con ordinanza non impugnabile che l’esecuzione” (non l’efficacia esecutiva della sentenza) “sia sospesa in tutto o in parte quando ricorrono gravi motivi”.
È stata peraltro rilevata un’incongruenza del testo dell’articolo, che al sesto comma parla di sospensione della (sola) esecuzione, mentre al quinto comma fa riferimento a sentenze soggette alla disciplina degli articoli 282 e 283 c.p.c., norma - quest’ultima - che consente anche la sospensione dell'efficacia esecutiva. Si è fatto inoltre richiamo anche in quest’occasione alla rilevante novità rappresentata dal fatto che anteriormente alla riforma, e in base al testo vigente sino al 28 febbraio 2023, la possibilità di ottenere un provvedimento di sospensione della sentenza era legata alla sussistenza di “gravi” e “fondati” motivi, anche in relazione alla possibilità di insolvenza di una delle parti, mentre adesso è sufficiente la ricorrenza alternativa dell’uno o l’altro requisito (novellato art. 283 c.p.c.: “ll giudice d'appello….sospende in tutto o in parte l'efficacia esecutiva o l'esecuzione della sentenza impugnata….se l’impugnazione appare manifestamente fondata o se dall’esecuzione della sentenza può derivare un pregiudizio grave e irreparabile, pur quando la condanna ha ad oggetto il pagamento di una somma di denaro, anche in relazione alla possibilità di insolvenza di una delle parti”).
8 Dove è previsto che il mancato utilizzo dei modelli informatici menzionati nella norma determina conseguenze unicamente in ordine alle spese processuali.
Il legislatore delegato ha poi rivisto la disciplina dei filtri nelle impugnazioni, riscrivendo l’art. 348 – bis c.p.c., abrogando l’art. 348 - ter c.p.c. ed introducendo uno strumento che consente una decisione accelerata e semplificata non solo per gli appelli manifestamente infondati (com’era col vecchio art. 348 – bis c.p.c.), ma anche per quelli inammissibili e per quelli manifestamente fondati. Si tratta di un’utile innovazione, perché consente di riformare rapidamente una sentenza di primo grado manifestamente ingiusta.
In tutti questi casi è prevista una decisione semplificata a seguito di discussione orale, ai sensi dell’art. 350, 3° comma c.p.c., per l’appello civile, e dell’art. 436 - bis per l’appello in materia di lavoro, in base al quale “all’udienza di discussione il collegio, sentiti i difensori delle parti9, pronuncia sentenza dando lettura del dispositivo e della motivazione redatta in forma sintetica, anche mediante esclusivo riferimento al punto di fatto o alla questione di diritto ritenuti risolutivi o mediante rinvio a precedenti conformi”.
Il modello decisorio è quello della sentenza contestuale, già previsto per il primo grado dall’art. 281 - sexies c.p.c.; ma dell’utilità pratica di tale previsione si è dubitato, in base al rilievo che scrivere una motivazione, sia pure “in forma sintetica”, richiede più tempo che scrivere un dispositivo, con conseguente allungamento dei tempi della camera di consiglio.
In virtù del disposto dell’art. 348 - bis, 2° comma c.p.c., la sentenza contestuale non può essere pronunciata quando solo l’appello principale, e non anche l’appello incidentale, appaia inammissibile o manifestamente infondato.
L’art. 438 c.p.c. prevede infine che nelle ipotesi diverse dall’art. 436 - bis c.p.c. (sentenza contestuale) “la sentenza deve essere depositata entro sessanta giorni dalla pronuncia” del dispositivo e che “il cancelliere ne dà immediata comunicazione alle parti”.
Anche questa non sembra una rilevante novità perché, se è vero che in precedenza l’art. 430 c.p.c. imponeva il deposito della motivazione entro quindici giorni dalla pronuncia, il termine che veniva di fatto rispettato era normalmente quello di sessanta giorni, e cioè il termine oltre il quale il ritardo nel deposito della sentenza acquista per il magistrato rilievo disciplinare.
7. Il giudizio di cassazione.
Il nuovo istituto del rinvio pregiudiziale disciplinato dall'articolo 363 - bis c.p.c. è stato già ampiamente esaminato nell’incontro seminariale del 15 febbraio 2023 dedicato alle impugnazioni.
Nel corso del seminario del 22 marzo sono stati sollevati rilievi critici sotto il profilo che, ricorrendo le condizioni di cui dei punti 1,2 e 3 indicati dalla norma, il meccanismo del rinvio può essere avviato da qualunque giudice del merito a propria discrezione, con l'unico limite di aver sentito le parti cui è riservato unicamente la facoltà di depositare “brevi memorie”, peraltro solo dopo che l’ordinanza è stata emessa e solo se e quando il presidente della cassazione avrà assegnato la questione alla sezione semplice o alle sezioni unite; e ciò
9 Si ritiene che la locuzione “sentiti i difensori delle parti” non implica che il collegio debba provocare una discussione circa l’esistenza dei presupposti (di inammissibilità, manifesta fondatezza o infondatezza dell’appello), dovendo i difensori essere già a conoscenza di tali questioni di cui sarà loro cura occuparsi eventualmente nella discussione orale senza necessità di sollecitazione da parte del giudice.
Più difficile, stando alla lettera della norma, sembra ritenere che l’espressione in parola sia compatibile con l’applicazione dell’art. 127 - ter c.p.c. (sostituzione dell’udienza mediante il deposito delle note di trattazione scritta). La conseguenza tuttavia sarebbe assai modesta, dovendosi escludere che dopo la non-udienza ex art. 127 - ter c.p.c. sia vietato depositare una sentenza che dichiari l’appello inammissibile o fondato o infondato.
comporterebbe il rischio che, anziché conseguire un effetto deflattivo come auspicato dal legislatore, lo strumento possa da un lato addirittura ingolfare la Suprema Corte, dall’altro - ove utilizzato in modo improprio - ritardare notevolmente la definizione dei giudizi nella fase di merito.
Si è poi osservato che, mentre la finalità (sottesa all’introduzione del nuovo istituto) di favorire, in presenza delle condizioni stabilite dalla norma, la formazione di una nomofilachia accelerata, appare pienamente giustificata con riguardo alle norme processuali, in funzione di esigenze di certezza del diritto le quali postulano che le regole del gioco siano note, stabili e uguali per tutti fin dall'inizio del giudizio, a diversa conclusione dovrebbe invece pervenirsi con riguardo alle norme di diritto sostanziale. Con riferimento a tali norme, infatti, affinché la funzione nomofilattica della Cassazione possa considerarsi correttamente esplicata, debbono trovare piena possibilità di esplicazione sia il principio costituzionale dell'uguaglianza (il quale implica tra l’altro che la legge, quanto meno a livello di cassazione, venga interpretata
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