XIX Congresso di Md

Speciale

XIX Congresso di Md

di Esecutivo di Magistratura Democratica
Il documento conclusivo
IL DOCUMENTO CONCLUSIVO DEL XIX CONGRESSO


IL CONTESTO IN CUI OPERIAMO

Il XIX congresso di Magistratura democratica si colloca in una fase cruciale nella vita del Paese. Dopo anni di governo del centro-destra, nel novembre del 2011 il quadro politico-istituzionale è mutato profondamente e la guida del Governo italiano è stata affidata ad una compagine di “tecnici”, in una programmatica prospettiva di “discontinuità” rispetto alla esperienza precedente. Una discontinuità, anche di stili e di tipi umani, rivendicata in nome della esigenza di fronteggiare una crisi economica senza precedenti, dopo sollecitazioni provenienti da diversi “centri di potere” collocabili anche oltre i confini nazionali.

Dopo poco più di un anno, siamo oggi all’epilogo della parentesi del governo tecnico e, con  ogni verosimiglianza, anche della seconda repubblica; vale a dire di una fase della vita del Paese connotata dalla centralità politica e culturale di una destra populista e con tratti di dichiarata insofferenza nei confronti dell’assetto costituzionale vigente. Se questo ventennio non ha prodotto guasti irreversibili nel tessuto democratico lo si deve alla tenuta e alla battaglia culturale delle parti più avanzate e consapevoli della società civile ed Md è orgogliosa di aver portato il proprio contributo di idee  sensibilità con tutta la determinazione di cui è stata capace.
Il futuro rimane peraltro assai incerto. A fronte del probabile tramonto della maggioranza  politica della destra berlusconiana non è, viceversa, ancora prevedibile quale assetto si consoliderà e se gli aspetti culturalmente deteriori di tale fase si potranno dire veramente superati. E’del tutto vano tentare oggi di prefigurare gli scenari che ci attendono nel prossimo futuro, ma occorre essere consapevoli che l’elaborazione e l’iniziativa di Magistratura Democratica saranno ancora indispensabili in una fase che sarà senza dubbio connotata da profonde trasformazioni del quadro normativo e della vita politico-istituzionale.

Il nostro Paese sta affrontando una crisi economica estremamente dura che incide sui  rapporti sociali, politici e culturali, sulla società civile e la stessa rappresentanza democratica, non restando estranei i profili legati alla giustizia.

Le scelte politiche fatte in nome della reale esigenza  di fronteggiare la crisi economica e quelle mancate hanno avuto ripercussioni sul welfare, sulla tutela dei diritti fondamentali, sulla distribuzione degli oneri sociali, sull’effettiva attuazione del principio di uguaglianza e sul funzionamento della giustizia.

Su questo terreno Magistratura democratica vuole continuare ad esercitare con forza il suo ruolo di “coscienza critica” partecipando al dibattito pubblico, confrontandosi con la società civile, rinnovando il proprio impegno per una giurisdizione capace di interpretare le norme con l’attenzione rivolta alle esigenze e ai mutamenti sociali.
Nel contesto complessivo appena ricordato possiamo osservare che la magistratura appare concentrata su se stessa e frammentata al proprio interno; il progressivo scivolamento verso il conformismo e la burocratizzazione può essere evitato soltanto da un progetto di ampio respiro che collochi la giurisdizione e il magistrato nel cuore  dei mutamenti sociali e politici in atto. Un progetto che  muova dalla constatazione che la magistratura  riveste oggi un ruolo sempre più importante, non di rado costretta a intervenire a causa dell’inerzia degli apparati amministratici e politici,  con l’effetto che le decisioni giudiziarie diventano centrali per la vita delle persone e del Paese e costituiscono il baluardo della tutela dei diritti e dell’uguaglianza.

Nessuno come Md ha avuto chiaro il ruolo sociale della giurisdizione e saputo esercitare una funzione trainante nell’interpretazione costituzionalmente orientata dell’intero ordinamento: questa l’eresia di un gruppo che ha svelato una volta per tutte l’ipocrisia delle pretese  di neutralità e apoliticità della giurisdizione.
La politicità della giurisdizione che solo Md per anni ha sostenuto è oggi  valore che vediamo con piacere riconosciuto da settori sempre più ampi della magistratura e dalla stessa dottrina che un tempo prese le distanze da quella intuizione.

Così come in passato è stato essenziale il ruolo di Md nell’attuazione dei principi della nostra Carta costituzionale, oggi è fondamentale l’impegno per promuovere l’integrazione dell’ordinamento italiano in quello europeo alla luce della giurisprudenza della Corte Costituzionale, della Corte di giustizia e della Corte europea dei diritti dell’uomo. Solo così saremo capaci di interpretare la complessità di questi tempi e garantire la tutela dei diritti in un mondo globalizzato segnato dalla debolezza della politica e dal predominio del potere economico-finanziario.

L’ATTUALITA’ DELLA TUTELA DEI DIRITTI

Magistratura democratica non può rinunciare a quella che da sempre è la propria funzione fondativa: la tutela dei diritti e l’arricchimento del loro catalogo in un’epoca in cui le insufficienze della Politica nel nostro come in altri  paesi aumentano le responsabilità e il ruolo della giurisdizione.

Come i lavori congressuali hanno confermato anche grazie al contributo prezioso di conoscenza e di critica venuto dagli ospiti, la democrazia dei diritti è l’unico vero antidoto rispetto al governo della finanza e del potere che non ha luogo né legge. La dimensione internazionale e europea dei fenomeni e delle criticità richiede che si operi su analogo livello e questo, ricondotto al settore della giustizia, impegna tutti noi a nuovi approcci e nuove consapevolezze.

La grande complessità del mondo che ci circonda e delle analisi necessarie per far fronte a questi compiti richiede che Md ritrovi appieno la ricchezza che viene da una elaborazione collettiva e da un’azione condotta col concorso di tutte le energie disponibili. Il mutare del contesto e la rapidità di alcuni cambiamenti rendono non semplice comprendere come vecchi e nuovi diritti si vanno coniugando e quali sono oggi le forme di vera diseguaglianza che richiedono un impegno prioritario. I rapporti con le realtà politiche organizzate di politica e con quelle impegnate sul  versante sociale rappresentano più che mai un veicolo essenziale di conoscenza e di contaminazione a cui Md non intende rinunciare.

Si tratta nel complesso di un impegno che coinvolge da tempo anche le tematiche della organizzazione e della  innovazione negli  uffici giudiziari, non considerate come valori in sé, ma come strumento che incide sulle scelte della giurisdizione e sulle forme concrete di individuazione e di tutela dei diritti.

Sappiamo che tanto sul versante dell’elaborazione del pensiero quanto sul versante delle scelte operative la risposta del singolo magistrato non è sufficiente e si rivela necessaria l’azione coerente dell’intero ufficio giudiziario. Md non crede ancora oggi nel potere salvifico di pochi magistrati illuminati e continuerà a battersi per una magistratura non elitaria e capace di operare in modo consapevole e con uguali responsabilità dentro la società.


ALCUNE PROPOSTE PER UNA NUOVA STAGIONE DEI DIRITTI

1.    LE POLITICHE IN MATERIA DI IMMIGRAZIONE.

L’immigrazione è oggi, in l’Italia come nella maggior parte dei paesi dell’Unione europea, un fenomeno strutturale, che ha portato ad una presenza nel nostro Paese di circa 5 milioni di cittadini stranieri, spesso inseriti nel mondo del lavoro e dell’impresa. Stranieri che rappresentano uno degli elementi essenziali del faticoso processo di sviluppo della nostra realtà economico-sociale, la cui presenza, in ogni caso, ha fortissimi riflessi sul piano demografico, considerati il costante invecchiamento della popolazione italiana e la correlata crisi della natalità degli autoctoni.

Ciononostante, per anni le politiche in materia di immigrazione sono state caratterizzate da un approccio di stampo emergenziale, in cui le parole d’ordine del discorso pubblico hanno spesso assunto i caratteri della propaganda razzista e xenofoba e le scelte legislative sono state in genere declinate in chiave securitaria, proponendo una disciplina irrealistica degli ingressi che di fatto ha stabilizzato il ricorso alle inevitabili e cicliche “sanatorie” delle situazioni di irregolarità. Sul piano amministrativo, poi, le scelte dei vari governi sono state caratterizzate da investimenti, in termini economici e politico-culturali, del tutto insufficienti, che hanno chiuso i tenui spiragli che, in qualche caso, le scelte normative avrebbero consentito di prefigurare.

E’ quindi evidente la necessità di ripensare le politiche in tema di immigrazione lungo una direttrice che tenga insieme le necessità dell’accoglienza (in specie, ma non solo, dei richiedenti asilo) e quelle dell’integrazione dei cittadini stranieri regolarmente soggiornanti in Italia, nel contesto di una nuova politica della cittadinanza.
Non c’è alternativa rispetto a una politica che sappia modulare una nuova disciplina dell’ingresso e del soggiorno e promuovere una progressiva parità di trattamento tra stranieri e cittadini italiani nel godimento dei diritti civili e sociali; una politica che riformi strutturalmente la disciplina dei rimpatri, riducendo le ipotesi di ricorso allo strumento dell’allontanamento coattivo  nel contesto di una nuova regolamentazione della permanenza sul territorio nazionale che riconosca forme di regolarizzazione stabile e dia certezza delle situazioni giuridiche.

Alcune proposte concrete per una “legislazione giusta ed efficace”.
A) La disciplina degli ingressi e del soggiorno deve essere ripensata, con riferimento alla c.d. immigrazione economica e ai soggetti con basso livello di qualificazione professionale, prevedendo meccanismi di ingresso che consentano di entrare regolarmente in Italia con un visto “per ricerca di lavoro” e ottenere il riconoscimento dei titoli di studio e delle qualifiche professionali conseguiti all’estero;
B) occorre rafforzare il diritto al ricongiungimento familiare, favorendo la regolarizzazione dei familiari che vivono già in Italia e, in generale, l’esercizio dei diritti civili e sociali e il rilascio di un titolo di soggiorno;
C) occorre garantire sempre, ai richiedenti asilo, un’accoglienza secondo gli standard dell’Unione europea, limitando ad ipotesi eccezionali il loro trattenimento e rafforzando l’accesso alle tutele giurisdizionali;
D) Sul versante del soggiorno, vanno introdotti meccanismi di regolarizzazione ordinaria per i cittadini stranieri, già presenti in Italia, che siano in grado di dimostrare lo svolgimento di una attività lavorativa stabile o l’esistenza di significativi legami familiari o affettivi;
E) una nuova disciplina della cittadinanza impone di valorizzare il principio dello ius soli e di assicurare a tutti i cittadini stranieri residenti in Italia il diritto di voto alle elezioni comunali e il pari accesso alle prestazioni sociali di natura assistenziale, nonché il diritto di accedere al pubblico impiego, salvi i casi di esercizio di pubblici poteri o in cui vengano in gioco esigenze di tutela dell’interesse nazionale.
Quanto, poi, alla irregolarità dell’ingresso e del soggiorno, occorre limitare l’uso degli strumenti di allontanamento coattivo come le espulsioni soltanto per i casi più gravi, incentivando al contrario il rimpatrio assistito e la partenza volontaria. Va ripensata la disciplina del trattenimento amministrativo, attribuendone la gestione ad un giudice professionale nell’ambito di una procedura realmente garantita e chiudendo definitivamente la pagina dei centri di identificazione ed espulsione (CIE), strumenti costosi e inutili che violano palesemente norme costituzionali.
Infine, occorre definitivamente espungere dal sistema penale le fattispecie, tuttora presenti, che sanzionano con lo strumento della pena l’ingresso o il soggiorno irregolari (salve le ipotesi di reingresso illegale di stranieri condannati ed espulsi perché socialmente pericolosi). Fattispecie che non hanno alcuna reale efficacia preventiva e sortiscono l’unico risultato di aumentare inutilmente il contenzioso giudiziario.


I DIRITTI DEL LAVORO AL TEMPO DELLA CRISI

Nei due anni trascorsi dall’ultimo Congresso la metamorfosi del lavoro, del mondo del lavoro e del diritto che lo regola, si è completamente compiuta.
La finanziarizzazione del nostro orizzonte costituzionale, recentemente consacrata dall’introduzione del Fiscal Compact, ha strattonato tutti quelli che i giuristi del lavoro consideravano imprescindibili capisaldi: l’inderogabilità della normativa in ragione della maggiore debolezza dei lavoratori, la centralità del rapporto di lavoro a tempo pieno e indeterminato, la tutela reintegratoria dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, il ruolo della contrattazione collettiva nazionale.
L’attrazione del contratto di lavoro nella dimensione privatistica, pretermette tutte le esigenze di tutela che da sempre sono ricollegate alla minore forza contrattuale e la precarizzazione dei rapporti di lavoro, perpetuata in nome di insopprimibili esigenze di flessibilità a loro volta indotte dalla imperante competitività, ha da ultimo compiuto un altro passo avanti con la legittimazione del primo contratto a termine acausale di lunga durata (12 mesi), introdotto dalla cd. Riforma Fornero.
Lo smantellamento pressoché integrale dell’articolo 18 e con esso del diritto al posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo ha destabilizzato l’intero sistema di tutela dei lavoratori, non solo eliminando lo schermo protettivo dietro cui potevano trovare concreta possibilità di attuazione tutti gli altri diritti ancora formalmente riconosciuti  (ad esempio, di libera manifestazione del pensiero, di associazione, di tutela della salute) ma  provocando un mutamento, anche lessicale, nella percezione della tutela reintegratoria. Questa tutela, un tempo punto di forza dei diritti del lavoro, è trasformata in mera risposta sanzionatoria verso comportamenti datoriali direttamente lesivi della dignità dei lavoratori.

La valorizzazione della contrattazione collettiva di prossimità, preannunciata dalla rottura dell’unità di azione sindacale, con possibilità di derogare non solo alla contrattazione nazionale ma alle stesse previsioni di legge, conferma il riconoscimento di un primato assoluto alla parte imprenditoriale nella organizzazione del lavoro.
Il culto della flessibilità in ogni momento del rapporto di lavoro (tanto “in entrata” quanto “in uscita” e nella individuazione delle regole) mentre ha impoverito i lavoratori, non ha giovato al mercato del lavoro, se è vero che si conta oggi la più elevata percentuale di disoccupazione dell’ultimo decennio in termini assoluti (circa il 12% della forza lavoro) ed anche con riferimento alla disoccupazione giovanile (arrivata alla cifra record del 37,1 % pressoché raddoppiata dal 2007).
Gli aspetti fin qui elencati, e sui quali si rinvia all’analisi oggetto del Commentario sulla Riforma Fornero, pubblicato sul sito Md, costituiscono null’altro che il versante giuridico della cupa crisi che affligge, in termini di povertà e disuguaglianze, moltissimi cittadini di questo paese.
La giustizia del lavoro, che in era berlusconiana, con il cd. collegato lavoro, si voleva dribblare favorendo forme di arbitrato e certificazione (si rinvia sul punto a “Il collegato lavoro: ancora una legge per la riduzione dei diritti", Q.G. n.6/2010), è stata resa sempre più inaccessibile, sia aumentandone il costo sia omettendo qualsiasi intervento che a livello organizzativo che possa garantire davvero la celerità nella trattazione.
Se è abbastanza semplice l’analisi di quanto accaduto nel corso degli ultimi anni e per effetto di un legislatore preoccupato unicamente del monito europeista, sostenuto e giustificato con dati statistici presto rivelatisi vacui e fallaci, dalla flessibilità come condizione per favorire l’occupazione alla necessaria eliminazione dell’articolo 18 dello Statuto per sollecitare investitori stranieri, ardua è invece la strada che potrebbe restituire dignità al lavoro. A cominciare anche da una Europa che sui temi del lavoro e dell’occupazione “decente” dovrà anche ritrovare lo slancio dei primi anni del XXI secolo senza delegare alla BCE o ai poteri economici degli Stati più importanti le scelte cruciali in materia, ma orientando la barra verso la coesione sociale ed i diritti di cittadinanza che rappresentano – nel mondo – il modello più coerente degli ultimi 70 anni dello stato di diritto.

Prima ancora sarà necessario ricreare una contaminazione tra l’economia ed i valori, quelli espressi dalla nostra Carta Costituzionale, per ricondurre la prima in un alveo di compatibilità con i principi democratici e con le scelte valoriali di tutela. Confidando in un progetto di New Deal Europeo si dovrà intervenire,  nel nostro ordinamento lavoristico, con una serie di misure atte a far camminare il mondo del lavoro su un terreno di responsabilità e lealtà: una riduzione ad unità dei vari contratti di lavoro; il recupero del criterio unificante di dipendenza economica che favorisca una nuova coscienza di condivisione dei diritti; una disciplina normativa sulla rappresentanza sindacale, attuativa dei criteri costituzionali, in grado di veicolare le istanze concrete dei lavoratori e garantire il peso effettivo della “maggioranza” dei lavoratori; la promozione di più intenso coinvolgimento dei lavoratori e dei loro rappresentanti nella gestione aziendale; la revisione del sistema degli ammortizzatori sociali (totalmente mancata con la Riforma Fornero) per una mobilità compatibile con le esigenze del mercato e intrisa di formazione, manutenzione e promozione delle esperienze e potenzialità.

 

QUALE CARCERE MENO, CARCERE

L’emergenza del sovraffollamento - costantemente documentata da numeri davvero impressionanti è solo la manifestazione più evidente e drammatica della 'questione carceri'. La quale, tuttavia, non può esaurirsi nell'idea di come debba funzionare il nostro sistema penitenziario, riguardando all'evidenza i presupposti stessi in cui, in un ordinamento civile, possa ritenersi accettabile il ricorso alla pena detentiva ed alla custodia cautelare in carcere. Sotto questo profilo occorre realizzare un ampio intervento riformatore, che deve muoversi su un duplice versante: quello delle indispensabili modifiche di carattere normativo e quello degli interventi sul versante amministrativo (strutture, risorse, mezzi). Con una premessa fondamentale: lo strumento penale non può essere avulso da politiche di tipo inclusivo, che sia pure in una cornice di ridefinizione complessiva dei caratteri del nostro sistema di welfare, deve mirare a realizzare percorsi di integrazione sociale ed economica verso le fasce sottoprotette della popolazione nei cui confronti, ancor oggi, si orienta la repressione penale e, in particolare, lo strumento del carcere. Ancor oggi, infatti, deve registrarsi come il carcere rappresenti il drammatico risultato delle politiche sociali degli ultimi anni, ed in particolar modo di quelle in materia di immigrazione e stupefacenti. Soltanto mettendo in stretta connessione le politiche sociali su queste grandi questioni, con i crimini che maturano all’interno di tali fenomeni ci si potrà avviare verso una maggiore equità sociale in generale e del sistema della repressione penale in particolare. Non è, dunque, immaginabile alcuna seria riforma dei nostri istituti di pena al di fuori di un più ampio intervento riformatore sul sistema penale, che parta dal ripensamento del catalogo dei delitti e di quello delle pene, e interessi recenti interventi sul terreno del trattamento sanzionatorio, quale la legge cd. Cirielli con i suoi effetti vistosamente irrazionali ed ingiusti in punto di recidiva. Ineludibile, sotto questo profilo, è un intervento sulla legislazione penale in materia di stupefacenti, attraverso poche ma efficaci misure, come ad esempio: la repressione in via solo amministrativa dei fenomeni di cessione dei derivati della cannabis indica o quantomeno lareintroduzione della doppia tabella per “droghe leggere” e “droghe pesanti” e la conseguente differenziazione del regime sanzionatorio; la creazione di una fattispecie autonoma per i c.d. “fatti di lieve entità” (sottraendo quella che è, oggi, una circostanza attenuante alle incognite del giudizio di bilanciamento); una più netta tipizzazione degli indici legali dello spaccio di sostanze, onde evitare la frequente incriminazione di soggetti che hanno in realtà il profilo criminologico del mero consumatore; una chiara depenalizzazione della coltivazione di cannabis per uso personale; una generale riduzione delle pene edittali. Al contempo, nell’ottica di una integrazione tra interventi sociale ed interventi penali, la previsione di una significativa destinazione di risorse economiche alla prevenzione, ovviamente “stornate” dalle ingentissime risorse oggi impiegate per la repressione.

La Costituzione impone che la pena detentiva sia  finalizzata alla rieducazione del condannato e l’ordinamento processuale vuole che il ricorso alla custodia cautelare in carcere sia l’extrema ratio. L’utilità della pena detentiva non può prospettarsi tutte le volte che essa non sia una risposta necessaria al reato, e quando la sua espiazione avvenga in condizioni  che –di fatto- non garantiscano alcun serio percorso rieducativo. E’, invece, indiscutibile che alcune leggi entrate in vigore negli anni passati abbiano avuto come effetto di produrre più carcere  e meno misure alternative al carcere. E’ ormai urgente superare quella stagione, attingendo a proposte di riforma più e meno recenti, che meritano convinta adesione. Ma anche la previsione della pena detentiva quale fulcro dell’intero sistema sanzionatorio deve essere cancellata, prendendo atto dell’esperienza che dimostra che le maggiori percentuali dei recidivi si contano proprio tra coloro che non accedono alle misure alternative. Un nuovo sistema di pene diverse da quella detentiva, peraltro, ha bisogno, per poter funzionare, e raggiungere le sue stesse finalita', di una profonda integrazione tra amministrazione della giustizia,  rete dei servizi territoriali e privato sociale, volta in modo particolare al recupero dei soggetti appartenenti alle fasce di marginalità sociale.

La situazione attuale delle nostre carceri chiama in causa non solo la politica, ma anche la magistratura e l’amministrazione penitenziaria. La prima chiamata a dare risposte alle criticità evidenziate dalla sentenza CEDU dell’8 gennaio 2013, Torregiani c/Italia, che ha condannato il nostro Paese per le condizioni inumane di custodia; risposte che possono essere date con interpretazioni della legge conformi al principio del ricorso alla carcerazione preventive e alla pena detentiva nei soli casi in cui sia assolutamente indispensabile.

Quanto all’amministrazione penitenziaria, non si tratta solo di disporre di risorse aggiuntive, ma anche di riqualificare gli interventi, privilegiando i settori del trattamento e del lavoro, della esecuzione penale esterna, della ristrutturazione degli ambienti detentivi, finalizzata – quest’ultima- non solo al recupero di maggiore capienza, ma soprattutto alla realizzazione di un modello detentivo radicalmente diverso da quello attuale, in base al quale la giornata dei soggetti ristretti risulti impegnata nello svolgimento di attività di formazione, di studio o di lavoro e, per effetto del quale, sia effettivamente affermata la legalità nei nostri istituti di pena.

La riforma del nostro sistema penitenziario, richiedendo interventi su più piani, realisticamente, non potrà realizzarsi  senza un certo gradualismo. E tuttavia il doveroso rispetto della dignità umana, costituendo una delle coordinate costituzionali della riforma del nostro sistema penitenziario, volta a tenere ferma solo la pena che sia utile (dunque: non più carcere comunque; ma meno carcere), induce a considerare con favore ed a ritenere realizzabile da subito la proposta del cosiddetto numero chiuso degli ingressi. Formula, questa, prevedibilmente destinata a suscitare pregiudiziali reazioni di rigetto, e che –non foss’altro per questo- pare opportuno sostituire con quella, aderente al merito della proposta, di rinvio obbligatorio della esecuzione della pena  nei casi in cui essa si svolgerebbe in condizioni tali da non garantire il rispetto della dignità dei condannati. Si tratterebbe, in sostanza, di dilazionare gli ingressi in carcere dei condannati che siano liberi al momento del passaggio in giudicato della sentenza, tutte le volte che l’esecuzione debba avvenire in istituti nei quali la capienza regolamentare sia già esaurita. La lista di attesa che dovrebbe seguire per la programmazione dei successivi ingressi, da scaglionarsi in concomitanza con il recupero di posti disponibili,  potrebbe accompagnarsi, ove necessario (ad esempio, per la pericolosità del soggetto o altri motivi da prevedersi normativamente), all’ordine, emesso dall’Autorità Giudiziaria, di dare immediato inizio all’esecuzione nella forma della detenzione domiciliare. Ulteriore previsione, volta a mitigare l’automatismo del nuovo sistema di regole, potrebbe essere quella che tende ad escludere dalla loro applicazione determinate categorie di reati e i condannati che debbano espiare una pena superiore ad auna determinata soglia.

Lungi dall’essere una ipotesi ispirata da perniciosa permissività, la proposta si presenta come una razionale risposta, parziale ma non per questo da scartare a priori, ad una emergenza non più tollerabile, in minima parte attenuata dalle leggi cosiddette “svuotacarceri” entrate in vigore nel 2010 e 2011, avente effetto –a differenza di provvedimenti indulgenziali, mai accettati socialmente- sul flusso degli ingressi. Non è un caso che precedenti in tal senso si annoverino nell’esperienza di paesi (USA e Repubblica Federale Tedesca) non sospettabili di insensibilità alle esigenze di sicurezza e di effettività del rispetto delle regole.

Magistratura democratica chiede, infine, che venga attuata la legge 17 febbraio 2012 n. 9 sulla chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, purche' vengano tempestivamente create le strutture alternative di accoglienza, previste dalla stessa  ed affidate alla gestione esclusiva del servizio sanitario nazionale, peraltro  in grave ritardo sul punto.  È' fondamentale ribadire il rischio derivante dal non adeguato bilanciamento degli interessi in conflitto del sostegno terapeutico e della tutela della dignità degli internati e dall'altro quello della difesa sociale nei confronti di soggetti sui quali esiste una valutazione di pericolosità, materia che imporrebbe peraltro la revisione profonda delle norme sulla imputabilità e sulle misure di sicurezza , ancora risalenti al codice Rocco.

QUALE GIURISDIZIONE

Le tre emergenze qui ricordate costituiscono ancora una volta le manifestazioni più evidenti di una crisi dei diritti resa ancora più aspra dalla crisi economica e dal deficit delle politiche pubbliche. Ma molti altri sono i settori coinvolti a cui occorre guardare con preoccupazione e impegno.
Tutto questo rende evidente l’importanza di avere oggi una giurisdizione all’altezza dei compiti che ha davanti.
La difficoltà di coniugare la risposta ai carichi elevatissimi di lavoro con una riflessione sul proprio lavoro e con l’apertura agli stimoli che vengono dalla società è manifesta come non mai. La sensazione di oppressione dei “numeri” è resa più acuta dalla convinzione che il controllo disciplinare non ha la capacità di comprendere le ragioni profonde di errori e ritardi che dovrebbero essere contestualizzati, con la conseguenza che il magistrato percepisce un rischio generalizzato di sanzione di cui non sa apprezzare i confini. Queste percezioni, enfatizzate a volte strumentalmente, incidono profondamente su un terreno culturale diffuso di scarsa attenzione ai profili collettivi del lavoro e di non apprezzamento del senso del proprio lavoro.
Il risultato è una magistratura sempre più ripiegata su se stessa e attenta esclusivamente ai profili interni alla professione alla corporazione.
E’ evidente che una simile impostazione penalizza i momenti di partecipazione alla vita associativa e sfavorisce l’assunzione di responsabilità e l’impegno, con un impoverimento diffuso dell’elaborazione culturale e il consolidarsi di approcci utilitaristici.
Questo ci appare il contesto in cui i magistrati si rivelano particolarmente attenti alla “costruzione” della propria carriera professionale, alla formazione di titoli che potranno essere spesi, alla cura per le relazioni che si pensa potranno essere utili. Il bisogno di “protezione” torna a essere, nella crisi delle idealità, l’elemento che orienta comportamenti e seleziona l’impegno personale.
Non si tratta di aspetti estranei anche ai magistrati di cultura progressista, e questo accresce la preoccupazione e impone la ricerca di risposte adeguate.
I lavori congressuali sono stati anche per questo preceduti da analisi dei gruppi di lavoro sui temi considerati centrali e dalla ricerca di contenuti da sottoporre alla riflessione degli ospiti e dei partecipanti. Si è trattato di uno sforzo che ha ottenuto l’approvazione dei nostri ospiti e che è stato colto da molti. Parlare di prospettive europee del nostro agire e parlare dei diritti che siamo chiamati a tutelare ci è sembrato il modo migliore per fondare il senso della nostra professione e un orizzonte di impegno.
Ma quei contenuti, su cui occorre riflettere senza sosta e senza ritenere di avere “la risposta”, richiedono una giurisdizione in grado di operare in modo coerente.
Vengono qui in luce tanti profili di criticità che il recente passato ha messo in luce. Alcuni di essi sono stati oggetto del nostro dibattito. Occorre qui ripartire dal richiamo autorevole che è emerso nel corso del congresso all’esigenza che i magistrati, e noi per primi, recuperino la coerenza fra affermazioni di principio e intenti, da un lato, e la concretezza dell’agire quotidiano, operando in concreto per la tutela delle posizioni deboli (come i lavoratori sottoposti a rischi crescenti di infortunio e malattia) o la repressione delle manifestazioni razziste, xenofobe o, addirittura, di apologia dell’ideologia fascista.


MAGISTRATURA, DEONTOLOGIA, RUOLO PUBBLICO

Una riflessione seria sulla presenza e sull’agire nella società del magistrato e sui suoi rapporti con la politica investe anche le modalità di relazionarsi con il mondo dell’informazione.
E’ ormai acquisita, anche tra i magistrati, la piena consapevolezza sia della grande rilevanza delle proprie scelte comunicative sia della pretesa dell’opinione pubblica di conoscere le notizie relative ad iniziative giudiziarie in momenti sempre più anticipati rispetto alla celebrazione del processo, sia della conseguente tendenza dei media a sovraesporre alcune figure di magistrato sia della urgente necessità di trovare strumenti per evitare la distorsione e la mistificazione della vicenda processuale nella divulgazione mediatica.
La magistratura si muove nello spazio delimitato da due principi fondamentali: la pubblicità del processo, che nasce come garanzia di controllo dell’opinione pubblica sull’azione giudiziaria, e il dogma della riservatezza del singolo magistrato, inteso dalla politica, ma anche dall’opinione pubblica, in termini sempre più assoluti fino a chiederci di “star lontano dai giornalisti” e di “parlare solo con le sentenze”.
Ma, nell’era della comunicazione globale, processo pubblico significa processo mediatico e spesso il fondamentale principio della pubblicità del processo involontariamente genera, grazie alle potenzialità e all’uso sempre più disinvolto dei mezzi di comunicazione, fenomeni inaccettabili, come quello dei processi mediatici svolti in parallelo ai processi veri, quello della trasmissione in diretta o in leggera differita di intere udienze con inevitabili ricadute sulla genuinità delle dichiarazioni rese da altri testi nelle successive udienze ecc..
Magistratura democratica ribadisce la non accettabilità di posizioni culturali che tendono nella sostanza a restaurare una figura di magistrato avulso dal dibattito pubblico e chiuso nelle proprie stanze. Ciò non significa, ovviamente, ritenere indebite le critiche che ogni pubblica dichiarazione deve essere disponibile ad accettare, né pretendere che al magistrato non si applichino i limiti e le risposte istituzionali che operano per gli altri cittadini. Non tutto quello che è legittimo sul piano giuridico é opportuno sul piano culturale.
Come magistrati dobbiamo sempre avere presente che un nostro intervento pubblico richiede la capacità di attenersi rigorosamente ai fatti e di esprimere valutazioni coerenti e chiare. Tali che aiutino la pubblica opinione a comprendere di quei fatti la natura e il significato, rifuggendo da sovraesposizioni inutili e da ogni forma espressiva che agevoli strumentalizzazioni e coinvolga l'istituzione giudiziaria in un percorso comunicativo nel quale essa si trova esposta e senza difese.
Questo richiama il più generale tema della deontologia professionale, su cui parole molto chiare e forti sono state espresse nel coso dei lavori.
Un magistrato professionalmente attrezzato deve saper resistere alle pressioni esterne e interne, deve non lasciarsi condizionare dalla contingenza, deve fare della propria capacità professionale una barriera contro ogni ingerenza. Ciò sarà più facile se l’intero ufficio in cui opera e un sano associazionismo sapranno farsi carico delle tensioni e riportare la dialettica in limiti fisiologici che salvaguardino la libertà del determinarsi e il rispetto delle regole.
La ricerca continua di indipendenza e di qualificazione professionale, che sole legittimano il potere che è concesso al magistrato, richiede anche rapporti corretti, trasparenti ed equilibrati con le organizzazioni politiche. Richiede che il passaggio ad un impegno diretto nel mondo politico non costituisca condizionamento effettivo o potenziale dell’attività professionale. In questo, e in attesa di una più completa definizione delle regole, va richiamato il contenuto del codice che l’Anm si è data e delle delibere consiliari in tema, a partire da quella che intende garantire la cesura fra attività giudiziaria e territorio nel quale il magistrato sceglie di operare quale candidato ad elezione o quale amministratore pubblico.

     

IL PUBBLICO MINITERO QUALE ORGANO DI GARANZIA

Quanto si è detto fin qui impone di concentrare l’attenzione sulla figura professionale che oggi appare più carica di rilevanza e di criticità.
Il Pubblico Ministero ha, infatti, un ruolo centrale nella giurisdizione penale, per come la Costituzione e l'ordinamento processuale lo disegna; lo statuto di indipendenza, progressivamente rafforzato e reso effettivo, ha un indissolubile collegamento con principi fondamentali del sistema penale, su tutti quello dell'obbligatorieta' dell'azione penale.
La lunga strada per la piena affermazione dell'indipendenza - interna ed esterna - del pubblico ministero ha visto Md protagonista assoluta nell'elaborazione e nelle battaglie per la piena attuazione di principi fondamentali del sistema, la cui difesa si e' ritenuta e si ritiene indissolubilmente collegata all'attuazione dello stesso principio di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.
Non a caso, crediamo, la legge Castelli sull'ordinamento giudiziario ha ridisegnato significativamente l'assetto organizzativo delle Procure, ispirandosi all'evidenza a un principio di gerarchia quasi dichiaratamente stabilito per rendere più controllabile l'azione dei singoli sostituti da parte dei procuratori della Repubblica; e non a caso recenti iniziative di riforma costituzionale miravano a ridisegnare in modo radicale l'assetto ed il ruolo del Pm, riducendone l'indipendenza, l'autonomia perfino in relazione alla disponibilità di strumenti operativi fondamentali .
Il CSM si è' trovato e si trova ancora oggi 'stretto' tra un'elaborazione, anche recente, ispirata ai principi di massima tutela dell'autonomia dei singoli Sostituti Procuratori e le nuove norme sull'ordinamento giudiziario che quell'autonomia mirano a ridurre. Md ritiene che sia necessario che il CSM mantenga fermi principi a lungo elaborati, adottando decisioni - in ogni ambito del suo intervento - secondo interpretazioni normative costituzionalmente orientate. Le responsabilità attribuite al procuratore della repubblica devono, così, essere lette in modo da assicurare la capacità di coniugare il principio garantista dell’uniforme esercizio dell’azione penale con il doveroso rispetto dell’indipendenza professionale dei singoli sostituti: il binomio potere- responsabilità del procuratore della repubblica, che è' il più evidente precipitato delle norme sull'ordinamento giudiziario, ha importanti implicazioni ed impone scelte organizzative informate ai principi della trasparenza, dell'imparzialita', del buon andamento. La visibilità che progressivamente è' andata assumendo la stessa iniziativa degli uffici di Procura , non di rado per l'importanza e la delicatezza di molte indagini che lambiscono interessi di assoluto rilievo sociale e politico, ha posto e pone continuamente nuovi problemi, che impongono, crediamo, la piena consapevolezza della esigenza di misura, equilibrio, auto limitazione di ogni iniziativa che possa arrecare pregiudizio alle stesse indagini e alla percezione del ruolo del Pm. Md ha fatto del tema del rispetto delle garanzie uno dei punti fondamentali della propria elaborazione: al Pm l'ordinamento affida il presidio di esse in molti fondamentali punti che involgono beni di rango costituzionale. La legittimazione della giurisdizione e degli incisivi poteri che le sono riconosciuti passa anche attraverso la capacità di dare piena attuazione alle norme di garanzia; e ciò vale in modo particolare per il Pm, chiamato a inverare nei fatti il suo peculiare ruolo di parte imparziale, un ruolo che non a caso viene invocato anche per difendere la peculiarità del ruolo che riveste  nell'ordinamento .

PIU’ IN GENERALE: L’AUTOGOVERNO

Il recupero della credibilità della giurisdizione passa attraverso l’autoriforma della magistratura. E’ necessario un costante richiamo all’etica della professione e della “responsabilità”: l’autonomia e l’indipendenza della magistratura possono essere garantite solo da un’alta competenza professionale -assicurata da una formazione permanente- e da  scelte di autogoverno non  ispirate da  logiche spartitorie e correntizie, ma esclusivamente improntate al riconoscimento delle capacità e dei meriti.  La ferma opposizione alle derive correntizie non deve però indurci a nostalgie verso il criterio dell’’anzianità, “tranquillizzante” per la sua oggettività, ma incapace di garantire la individuazione dei migliori. 
La sfida della professionalità è un nodo ineludibile su cui non dobbiamo mai smettere di  discutere, avanzando critiche e proposte per migliorare il sistema delle valutazioni quadriennali  e delle nomine dirigenziali.  Ma sarebbe un errore  tornare indietro. 
Occorre piuttosto potenziare gli strumenti di conoscenza e i controlli delle valutazioni di professionalità, arricchendo i fascicoli personali dei magistrati e dei dirigenti con dati  concreti,  credibili, confrontabili,  affrontando con serietà e rigore le valutazioni di conferma, continuando il lavoro nei consigli giudiziari.
E’ necessario  valorizzare la motivazione del provvedimento amministrativo e  rendere  chiaro e leggibile il percorso motivazionale che ha determinato  la scelta di un dirigente tra una platea più ampia di aspiranti, ancorandolo a dati oggettivi reperibili nei fascicoli personali dei candidati.
Occorre vigilare sulla corretta e coerente applicazione dei criteri e denunciare con perseveranza le scorrettezze e le scelte inadeguate.
E allora:  i magistrati tutti devono mettere al bando  comportamenti  diretti all’ “autopromozione” o alla “promozione dell’amico” e i nostri rappresentanti devono sapere evitare condizionamenti territoriali e correntizi, garantendo la massima trasparenza nel  percorso delle valutazioni  e nelle scelte dei dirigenti che devono essere improntate esclusivamente ai criteri di merito e attitudine.
Ciò non significa -sia chiaro- interrompere la interlocuzione tra organi centrali e periferici, tra amministrati e rappresentati, indispensabile per un solido legame  con il territorio e gli uffici sui quali ricadono le decisioni di autogoverno, ma anzi rendere tale interlocuzione più solida, assicurarne la correttezza e cercare metodi che ne garantiscano  la trasparenza.
Ciò non significa cedere al qualunquismo anticorrentista ma rivendicare una maggiore coesione del gruppo su una linea politica definita e condivisa  discussa nei luoghi di incontro tra rappresentanti e rappresentati che informi le scelte dei consiglieri e consenta un autonomo e indipendente esercizio di quella discrezionalità che sappiamo essere  parte del loro difficile compito.

MD, ANM e AREA

Md nasce come un gruppo di rottura della corporazione e di apertura al confronto  con la società, ma anche come gruppo attento alle dinamiche della magistratura .
L’impegno in Anm è stato ed è essenziale come antidoto al settarismo e  come stimolo per comprendere i cambiamenti  e le pulsioni che percorrono la magistratura
L’Anm è il  primo laboratorio o il primo luogo dove Area sta sperimentando e realizzando un progetto comune. In questi mesi si sono condivisi idee e valori che hanno portato la GEC ad affrontare temi spinosi quali quello della salute e del lavoro, quello del carcere, quello della responsabilità civile, quello dei rapporti tra magistratura e politica in un’ottica in cui Md è stata trainante ed i suoi valori sono diventati comune patrimonio di Area e della magistratura associata che con noi condivide l’esperienza della Giunta .
Occorre che il nostro gruppo rinnovi e rafforzi l’impegno nella propria attività di politica giudiziaria, nella riflessione sulla qualità ed efficienza della giurisdizione e tutela dei diritti, nei rapporti con la società civile, la opinione pubblica e le istituzioni: solo così potrà crescere il terreno di impegno del nostro guppo anche nel progetto di Area e il  patrimonio culturale, politico e valoriale di Md potrà diventare  un “punto di riferimento” per  la magistratura progressista. Il gruppo saprà così arricchirsi di un confronto permanente, allargato anche ai magistrati non iscritti.
Questo impone che l’esecutivo, sulla scia dei documenti preparatori del congresso e del dibattito che nel congresso si è sviluppato, assuma come prioritario impegno una riflessione programmatica sui temi centrali di questa stagione, investendo con forza sui gruppi di lavoro e, più in  generale, sulla capacità di tutta Md di sviluppare riflessioni e iniziative all’altezza della sua storia e delle nuove sfide cui siamo ora chiamati.
Magistratura democratica ha il dovere di trasfondere in Area la cultura di un autogoverno trasparente, volta a promuovere professionalità consapevoli in ogni momento della necessità di collegare giurisdizione e società. Ha anche l’obbligo di non restringere il proprio orizzonte in confini strettamente professionali, di elaborare progetti e visioni che vadano al di là della semplice ricerca di un magistrato professionalmente più attrezzato e capace.
Magistratura democratica deve rivendicare il compito di elaborazione culturale e giurisprudenziale, coltivare il laboratorio delle idee, che è stato – e deve continuare ad essere – la ragione della sua esistenza, perché solo così può ancora attirare capacità, impegno, entusiasmo da mettere a disposizione della magistratura e dei cittadini.
Il congresso richiama infine con forza tutti gli aderenti al gruppo alla necessità di sostenere questa prospettiva con piena coerenza personale nell’attività professionale e associativa e senza far mancare il loro contributo propositivo, essenziale perché il gruppo conservi capacità di promozione e sia in grado di rispondere alle esigenze che tutti sentiamo comuni.

03/02/2013

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