Stati nazione e Stati giurisdizione
I processi sui crimini nazifascisti in Italia
È difficile immaginare un giudice che sia eticamente più necessario di quello chiamato a rendere giustizia sulle stragi nazifasciste commesse in Italia durante l’occupazione tedesca.
Eppure, questo giudice tende a dissolversi nell’esperienza concreta della giurisdizione italiana.
O meglio, se guardiamo alla storia giudiziaria dei crimini nazifascisti lo vediamo e ne percepiamo anche l’enorme fatica nel cercare di istruire processi e di restituire giustizia alle vittime, in uno scontro continuo con la forza sprigionata dagli Stati i quali, radicati nelle proprie sovranità nazionali, continuano a ostacolare la possibilità di una giurisdizione universale su crimini commessi nel loro stesso nome, anche se risalgono a momenti storici lontani nel tempo e a contesti politici molto diversi da quelli attuali.
Le Stragi nazifasciste in Italia sono state moltissime, tra le più note quelle di Sant’Anna di Stazzema, le Fosse Ardeatine e l’eccidio di Marzabotto. Migliaia di vittime, anche tanti bambini.
La giurisdizione penale sulle stragi, declinata come giurisdizione militare sui crimini di guerra, è stata essenzialmente affidata alle Procure e ai Tribunali militari, che disponevano di due Codici militari (di pace e di guerra) approvati nel 1941, anteriormente ai fatti giudicati, il che ha preservato la giurisdizione militare italiana dal conflitto tra la necessaria giustiziabilità dei crimini e il principio universale di irretroattività dell’incriminazione: conflitto che invece si è posto davanti a Tribunali ad hoc ed ex post facto, quali sono stati Norimberga (peraltro, quando si parla di processo di Norimberga non ci si riferisce solo al “processo madre” ma anche ai numerosi processi successivamente instaurati dalle corti tedesche nei confronti della classe dirigente e della borghesia nazista) e Tokyo.
La prima stagione giudiziaria ha avuto luogo tra il 1948 e il 1960 e ha visto celebrare i processi con più alto valore simbolico, come il processo Kappler per le Fosse Ardeatine.
Poi, dopo una fase di stallo, i processi sono ripresi negli anni Novanta, dopo la scoperta del cosiddetto “armadio della vergogna” (centinaia di fascicoli, ognuno dei quali relativo a una strage, archiviati con un provvedimento sostanzialmente abnorme, definito “archiviazione provvisoria”), per proseguire ancora negli anni Duemila, con la celebrazione dei processi per le stragi più sanguinarie, tra cui Marzabotto, Sant’Anna di Stazzema e Civitella.
In questo ultimo frangente, l’importante e indefesso lavoro del Procuratore Militare Marco De Paolis, prima a servizio a La Spezia e poi a Roma, ha consentito di portare a giudizio oltre ottanta imputati e di ottenere più di cinquanta condanne all’ergastolo, ma lo stato dell’esecuzione di queste condanne è estremamente scarso e frammentato, anche perché la Germania ha sistematicamente disatteso i mandati d’arresto spiccati dalle autorità giudiziarie militari italiane, obiettando di non riconoscere (come in effetti l’ordinamento tedesco non riconosce) i processi celebrati in absentia.
In questo contesto, la giurisdizione civile ha invece saputo sfidare apertamente, e con maggiori risultati, le pretese di immunità degli Stati, disapplicando, a partire dalla nota Sezioni unite Ferrini, del 2004, la norma di diritto internazionale consuetudinario che prevede l’immunità degli Stati per gli acta iure imperii, e in particolare decretandone la soccombenza di fronte a comportamenti dello Stato straniero di tale gravità da configurare veri e propri crimini internazionali, in quanto tali lesivi dei valori universali del rispetto e della dignità umana: valori che trascendono gli interessi degli Stati e, per questo, non sono restringibili nei confini delle giurisdizioni domestiche e devono anzi neutralizzare le pretese degli Stati, per quanto internazionalmente fondate, di immunità dalle giurisdizioni estere.
Non è riuscita a interrompere questa “primavera italiana” della giurisdizione civile umanitaria nemmeno la Corte internazionale di giustizia quando, con la sentenza 3 febbraio 2012, in causa Germania c. Italia, ha accolto il ricorso promosso dalla Germania contro lo Stato italiano (lo Stato giurisdizione non lo Stato nazione), negandone la giurisdizione sulle azioni risarcitorie per danni da crimini da guerra commessi iure imperii dal Terzo Reich.
In ottemperanza a tale decisione internazionale, il legislatore italiano ha promulgato, come norma di adattamento, la Legge 5 del 2013, che prevedeva che il giudice italiano dovesse adeguarsi alla pronuncia internazionale e dichiarare il proprio difetto di giurisdizione in qualunque stato e grado del processo.
Ma con una delle sentenze forse più ispirate ed evocative della sua storia, la 238 del 2014 (Presidente e Relatore Giuseppe Tesauro), la Corte costituzionale italiana ha travolto il divieto legislativo, in parte con una interpretativa di rigetto e in parte con una declaratoria di incostituzionalità: il cui congiunto operare è stato funzionale ad affermare che la tutela giurisdizionale dei diritti fondamentali costituisce uno dei princìpi supremi dell’ordinamento costituzionale e a esso non può opporre resistenza una norma che voglia vincolare lo Stato italiano, e per esso il giudice, a negare la propria giurisdizione in ordine alle azioni di risarcimento danni per crimini contro l’umanità.
È più che evidente, in questa sentenza, la visione proiettiva del singolo Stato verso lo spazio giuridico globale e la capacità di sostituire le fonti legali ̶ vincolanti esclusivamente in base al loro processo di produzione ‒ con fonti ultra-legali, cioè vincolanti prima di tutto per il contenuto prescrittivo: i diritti umani, i quali vincolano, ancora prima dei giudici, i legislatori e impediscono loro, gli Stati nazione, di paralizzare le magistrature, Stati giurisdizione, nella irrinunciabile attività di accertamento e di attuazione dei diritti fondamentali.
Con la legge 162 del 2014 il legislatore italiano è intervenuto nuovamente, questa volta per sottrarre all’esecuzione forzata i beni degli Stati stranieri che abbiano destinazione pubblicistica, così cercando di risolvere il problema in via di fatto, in quanto la Germania ha dichiarato la destinazione pubblicistica praticamente di tutti i beni immobiliari di cui è titolare in Italia.
Ma con una procedura esecutiva iscritta nel 2020 al Tribunale di Roma ‒ in forza delle sentenze 2892/2011 del Tribunale di Bologna, e 2120/2018 della Corte di appello di Bologna, che hanno condannato la Germania al risarcimento dei danni subiti da una vittima di crimini di guerra, per trattamento disumano in contesto bellico ‒ lo Stato giurisdizione si è di nuovo alzato a tutela dei diritti e, connettendosi direttamente con la Corte costituzionale 238, ha affermato che al diritto all’accesso alla giustizia in fase di cognizione deve necessariamente corrispondere un diritto di pieno accesso alla giustizia anche in fase di esecuzione, così respingendo la richiesta dello Stato tedesco di estinguere la procedura esecutiva sulla mera allegazione della destinazione pubblicistica dei beni pignorati e disapplicando, di fatto, anche la seconda norma di adattamento.
La Germania ha presentato un nuovo ricorso alla Corte internazionale di giustizia il 29.4.2022 e il 30.4.2022 è stato varato, in pronta risposta, un decreto legge (peraltro in materia di Piano nazionale di ripresa e resilienza), il cui articolo 43 (successivamente interpolato con la conversione in legge 79/22 e, ancora successivamente, con la legge 198/22) istituisce, esclusivamente a carico dello Stato italiano, un fondo per le vittime dei crimini nazifascisti e al contempo sancisce l’estinzione tombale di tutte le procedure esecutive iscritte a carico della Germania, oltre al divieto di iscriverne di nuove.
Con ordinanza del 21.11.2022 il Tribunale di Roma ha quindi sollevato una nuova questione di legittimità costituzionale anche nei confronti della nuova (la terza) norma di adattamento, e la Corte costituzionale ha calendarizzato l’udienza per il prossimo 4 luglio 2023.
La Corte si trova ora nella non facile posizione di doversi confrontare con il precedente enorme, ma politicamente molto ingombrante, della 238, nel mezzo tra le diverse aspettative, da un lato, di salvare l’istituzione del fondo ‒ che di fatto costituirebbe l’unico strumento concreto di soddisfazione per le vittime e i loro eredi ‒ e, dall’altro lato, di non ritrattare quel principio di universalità della giurisdizione sui crimini contro l’umanità, che così coraggiosamente la stessa Corte ha enunciato quasi dieci anni fa, gettando il cuore oltre l’ostacolo di una sedimentata (e tuttora attuale) arretratezza italiana nel percorso verso la giurisdizione universale.
Percorso che persegue idealmente uno spostamento in avanti dell’ordine giudiziario, che lo faccia slittare più lontano dal potere politico e dalla sovranità nazionale, per assumere una funzione contro-sovranista e andare così a collocarsi in asse con le organizzazioni non governative che proteggono i lavoratori, i migranti, le donne, le bambine e i bambini, le persone l.g.b.t.q.a.i.+, le vittime delle guerre e dei conflitti, i detenuti.
Il tratto comune della ferma e assoluta indipendenza, intesa anche come lontananza ideale dal potere politico e da tutte le sue espressioni, si unisce alla vocazione a proteggere, per costruire una comune intelligenza di protezione tra le organizzazioni non governative e le giurisdizioni.
Stati giurisdizione, che andando oltre (e a volte in contrasto con) gli Stati nazione, sono chiamati ad alterare la linea della forza, invertendone il flusso e spiegandola a proteggere piuttosto che a offendere, a opprimere e a presidiare confini.
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