Uno dopo l'altro

Lavoro

Uno dopo l'altro


VIVERE E MORIRE DI LAVORO (POVERO). 


UNA RIFLESSIONE SU APPALTO, RETRIBUZIONE COSTITUZIONALE E PARITÀ DI TRATTAMENTO NEGLI APPALTI


In pochi mesi abbiamo assistito a quattro infortuni mortali di particolare gravità, per il numero dei lavoratori coinvolti; se fossero morti in altro modo non esiteremmo a definirle stragi: Brandizzo, Firenze, Suviana, da ultimo Palermo. 


Da qualche tempo nelle nostre aule di giustizia si tengono con una certa frequenza processi in cui lavoratori deducono di percepire dai loro datori di lavoro retribuzioni inferiori anche alla soglia di povertà. Nulla di particolarmente nuovo se non fosse che quei lavoratori sono assunti regolarmente e a loro sono applicate le condizioni contrattuali previste da contratti collettivi sottoscritti da associazioni sindacali anche effettivamente rappresentative.


Situazioni diverse, eventi diversi, di gravità del tutto differente. Ma i lavoratori coinvolti hanno un dato in comune: sono praticamente sempre dipendenti di imprese appaltatrici, talvolta ne sono titolari o consulenti.


Ed è un dato indiscutibile che la convenzione in appalto, anche di frazioni molto significative dei processi produttivi delle aziende, costituisca una modalità di organizzazione dell’impresa e del lavoro diffusissima in quasi tutti i settori.


Talvolta lo strumento è utilizzato in maniera illecita, per nascondere un’interposizione fittizia di manodopera e quindi l’effettiva riferibilità dell’organizzazione del lavoro al committente, ma in moltissimi altri casi la forma giuridica corrisponde alla realtà delle relazioni negoziali ed è quindi certamente in sé lecita.


È tuttavia un fatto non seriamente contestabile che l’impiego dello strumento giuridico risponda solo in parte a finalità propriamente produttive (quali tipicamente l’attribuzione a terzi di frazioni del processo produttivo marginali o accessorie oppure connotate da una specifica complessità in termini di mezzi o di know how dei lavoratori impiegati). 


In molti altri casi, invece, l’operazione economica di segmentazione, talvolta di disintegrazione del processo produttivo, con l’attribuzione in appalto delle varie fasi, è un fenomeno parassitario, cioè privo di ogni ragione diversa dalla determinazione di ridurre il costo del lavoro.


Era proprio per evitare questi fenomeni, che oggi la sociologia chiama di delocalizzazione di prossimità, che il legislatore della legge n. 1369 del 1960 aveva previsto l’obbligo di parità di trattamento tra dipendenti del committente e dipendenti dell’appaltatore. Una previsione che dal 2003 non esiste più nell’impiego privato e la cui abrogazione ha avuto verosimilmente un ruolo non secondario nella diffusione nel tessuto produttivo del nostro paese degli appalti come strumento di contenimento dei costi e dei rischi derivanti dalla titolarità dei rapporti di lavoro.


Una tale diffusione ha tuttavia effetti importanti sui rapporti di lavoro: in maniera evidente sui livelli retributivi, in quanto il gap dei salari tra dipendenti del committente e dell’appaltatore è, in tanti casi, la ragione stessa della convenzione in appalto e della sua convenienza economica per le parti del rapporto (committente, appaltatore, sub appaltatori). Ma in molti settori gli effetti sono anche sulla sicurezza degli ambienti di lavoro, giacché, anche per aziende strutturate, non è facile garantire la sicurezza in cantieri in cui operano decine di imprese diverse, con diversi livelli di specializzazione della manodopera e differente adeguatezza degli strumenti della produzione rispetto alle attività commesse.


In ultima analisi, quindi, la diffusione di modelli organizzativi fondati sulla frammentazione massima dei processi produttivi ha conseguenze sulle vite delle persone che lavorano (dipendenti, ma anche piccoli imprenditori, anelli ultimi di filiere sempre più lunghe) della cui sostenibilità dovrebbe discutersi, nel dibattito pubblico e prima ancora nella comunità dei giuristi, in quanto non ogni organizzazione di impresa è ugualmente e indistintamente libera - ai sensi dell’articolo 41 della Costituzione - e non ogni salario è retribuzione costituzionalmente proporzionata e sufficiente - ai sensi dell’articolo 36 della Costituzione.


Il Gruppo Lavoro di Magistratura democratica da tempo si interroga sulla compatibilità con le garanzie costituzionali del lavoro, in particolare con i principi di sufficienza e proporzionalità della retribuzione, non certo dell’appalto in sé o della generalità degli appalti, ma di alcune tipologie di convenzioni, in particolare connotate dall’uso dell’appalto in segmenti anche indispensabili del processo produttivo del committente, e che prevedono l’impiego di dipendenti dell’appaltatore in mansioni già affidate [o ancora affidate anche] a dipendenti del committente, ma con condizioni retributive diverse, talora molto diverse.


È una riflessione nella quale intendiamo farci guidare dai principi affermati dalle recenti decisioni del Giudice di legittimità sulla retribuzione minima costituzionale e nella quale vorremmo coinvolgere i colleghi e le colleghe giudici del lavoro, l’accademia, l’avvocatura, senza alcuna pretesa di verità, ma riconoscendoci tutti e tutte nel comune impegno per la tutela dei diritti fondamentali delle persone che lavorano: una giusta retribuzione, la sicurezza dei corpi e delle vite.


Vogliamo dare avvio a questa discussione con un seminario e un dibattito pubblico tra giuriste e giuristi, accademici e pratici, di cui daremo notizia nei prossimi giorni. 


È il nostro modo per dire la nostra angoscia e la nostra ribellione davanti a tante morti insensate.

 

Il Gruppo Lavoro di Magistratura democratica 

 

 

21/05/2024

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