XX Congresso
L'intervento di Giovanni Zaccaro
Innanzi tutto voglio ringraziare tutti per l’affetto del quale mi avete circondato, sin dallo scorso congresso, in questi anni ed in questi giorni reggini.
Poi voglio ringraziare due colleghi. Due colleghi che si sono presi, l’uno prima dell’altro, il compito di portare Questione Giustizia nel mondo digitale e renderla ancora più aperta ed interessante. Due colleghi molto più coraggiosi ed entusiasti di noi, che siamo ancora definiti giovani: Beniamino Deidda e Renato Rordorf.
Il sottotitolo del congresso è il ruolo dei giudici nell’epoca dell’incertezza, non è solo un omaggio alle riflessioni di Ulrich Bech, morto nei giorni in cui discutevano del programma congressuale. Una citazione della “seconda modernità”, della “società del rischio” e dell’incertezza che la globalizzazione e le innovazioni tecnologiche hanno diffuso, eliminando i più tranquilli confini nazionali od i più tradizionali classici conflitti di classe.
Il sottotitolo rappresenta anche il rovello dei giudici democratici. Quale giurisdizione quando le “grandi narrazioni” novecentesche svaporano?
Alcuni punti fermi spetta a noi darli.
Il primo è quello sintetizzato nella frase di Carlo Verardi riportata nel materiale congressuale: la giurisdizione non può essere esercitata con il metro della sostenibilità economica delle decisioni.
Si tratta di tutto quanto, nella sessione dedicata alla giurisdizione civile di ieri, ci hanno spiegato Piero Curzio e Renato Rordorf. Si tratta, ancora una volta, della quantità di secondo comma dell’art. 3 Cost. che mettiamo nelle nostre decisioni.
Ma non è sufficiente declinare questi propositi. E’ necessario creare ogni giorno le condizioni necessarie per soddisfarli. Ed allora, il tema delle condizioni materiali del lavoro giudiziario non deve essere relegato, sempre e comunque, fra le questioni esclusivamente corporative. MD deve impegnarsi perché la quantità di lavoro che ogni giorno schiaccia molti di noi non prevalga sulla qualità, perché le valutazioni di professionalità non si trasformino in una bilancia che pesa i fascicoli smaltiti, perché la responsabilità disciplinare non sanzioni i più generosi inducendo la maggioranza a scelte organizzative difensive, perché le piante organiche non penalizzino i territori più gravati ( finendo con il danneggiare gli sfortunati cittadini che non possono vantare l’organizzazione di un Expo per ottenere il numero di giudici congruo per dare giuste risposte di giustizia). MD deve impegnarsi perché il modello di magistrato civile e del lavoro non sia quello che, come prima cosa, cerca il modo per non decidere nel merito la causa ed in questo senso è necessario un rinnovato impegno culturale, ancora più attento anche nella formazione dei magistrati.
Il secondo punto è quello del senso del processo penale.
Il processo penale non è il luogo dove si celebra la repressione del reato. E’ il luogo dove si verifica se le pretese punitive dello Stato siano corrette e siano esercitate nel rispetto dei diritti e delle garanzie dei cittadini.
Troppo spesso, non solo la stampa giudiziaria di stampo scandalistico, ma anche noi, anche noi di MD, ci scandalizziamo per una sentenza di assoluzione o di dichiarazione di prescrizione. Una sentenza di assoluzione o di dichiarazione di prescrizione non è uno scandalo, se è data nel rispetto dei diritti e delle garanzie. Dovremmo, invece, scandalizzarci se una donna, sicuramente sospettata di avere ucciso il suo piccolo figlio, viene sentita dagli investigatori per ore ed ore senza difensore. Se in una pagina Face book (generosamente creata per esprimere solidarietà ad un magistrato antimafia) si commenta la morte violenta di un mafioso, forse per mano di un esponente di un clan rivale, con frasi quali “uno in meno” o “grandi: si uccidono fra loro”.
Non sembriamo avere le idee chiare se l’unica soluzione che il mondo giuridico progressista propone contro il cancro della corruzione è quella di aumentare i termini della prescrizione del reato, invece di interrogarci sui motivi economici e politici che portano ai fenomeni corruttivi e sulle difficoltà investigative e di accertamento dei fatti. Se l’unica riforma che si chiede del processo penale è quella, ancora una volta, della prescrizione: una palese ammissione dell’incapacità di svolgere processi penali in termini ragionevoli (sette anni e sei mesi non è propriamente un termine brevissimo); invece, ben si potrebbe discutere di prassi organizzative inefficienti, di liste testimoniali inutilmente elefantiache, di dibattimenti trasformati in sfoggio di forza o fascino, di rinuncia dei giudici a guidare il processo, evitando ripetizioni o divagazioni, di prassi evidentemente mantenute per dissuadere dall’utilizzo dei riti alternativi, di un sistema di impugnazioni assai poco compatibili con il rito accusatorio.
Non sembriamo avere le idee chiare se ci spaventano istituti, come la messa alla prova o la tenuità del fatto, che invece mettono, finalmente, al centro del processo, principi a noi cari come quelli della giustizia riparativa o del diritto penale minimo. Se non pretendiamo l’effettività del diritto di difesa anche dai difensori di ufficio, spesso distratti nell’adempimento del loro dovere nell’indifferenza della associazioni forensi.
Non sembriamo avere le idee chiare se qualsiasi dibattito sul ruolo del pm riguarda la gerarchia negli uffici, i criteri di priorità, i rapporti con i media. Dimenticando che, se crediamo al pm come organo di garanzia, dobbiamo pretendere che compaia e tuteli i diritti anche nei procedimenti civili ove è parte: nei processi in materia fallimentare, in materia di famiglia, in materia di riconoscimento della protezione internazionale. Ed invece, come bene ci ha detto Vittorio Gaeta nella sua relazione al bel congresso catanese di Area, quasi mai il pm compare proprio in questi procedimenti, dove pure si tratta di diritti, di soggetti deboli, di cittadini che hanno bisogno di garanzie.
C’è poi il tema di AREA.
Lorenzo Miazzi ieri ci ha chiesto di sciogliere le ambiguità. Ce lo chiede da dieci anni…
Io penso che le ambiguità siano state sciolte. MD è già dentro AREA. MD ha già ceduto la sua sovranità ad AREA. MD già fornisce risorse materiali, umane, ideali ad AREA.
Forse spetta ad AREA sciogliere le sue ambiguità.
Decidere se, come e su cosa debba intervenire.
Lorenzo ha proposto di lasciare che MD si occupi di diritto, di elaborazione culturale e lasciare che AREA si occupi di autogoverno, giurisdizione, organizzazione. Così si liberebbero maggiori energie.
Mi sembra una soluzione semplicistica. Come si fa a fare una “politica sull’autogoverno” senza insieme mantenere viva la riflessione culturale sul modello di magistrato, di giurisdizione, di società che si vuole. Come si può prescindere, discutendo di autogoverno, dall’esame dei rapporti con gli altri Poteri, dal dibattito sulle riforme istituzionali e costituzionali, dal ruolo dello Stato nazionale nella società globalizzata, dal ruolo dei giudici nazionali nel “labirinto del diritto”.
Come si può discutere di cluster, criteri di priorità, organizzazione degli uffici, identikit dei capi e sottocapi degli uffici senza discutere del perché e per quali obiettivi ci si deve organizzare, del “se” e del “perché” si debba “dare precedenza” ad un processo piuttosto che ad un altro.
Come si può sperare una militanza in AREA, se proponiamo ai colleghi solo questi temi ed invece rinunciamo a chiedere loro di aiutarci a costruire un modello di magistrato, democratico, culturalmente attrezzato, efficiente nonostante l’epoca dell’incertezza che ci circonda?
AREA dunque deve essere qualcosa di più e di più nobile.
Deve superara l’afasia che l’ha caratterizzata (dopo l’ottima gestione della fase delle primarie e delle elezioni CSM).
Deve ambire ad essere l’erede a titolo universale dei gruppi fondatori.
Come tutti gli eredi, sarà più scanzonata degli avi, più sbarazzina, speriamo meno invadente nelle sedi dell’autogoverno ma troverà un senso di sé solo nel conoscere e riconoscere la storia dalla quale viene.
(28 marzo 2015)
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