Il sistema penale italiano non è impostato, dalla sua origine, sul riconoscimento della vittima e dei suoi bisogni né, di conseguenza, sul riconoscimento dei suoi diritti.
L’eredità della scuola classico-liberale è quella di un reo-centrismo tendenzialmente assoluto, nel quale l’intero edificio teorico delle garanzie processuali è imperniato sull’indagato nella fase delle indagini, sull’imputato nella fase del processo e sul condannato in via definitiva (cioè il reo propriamente detto) nella fase dell’esecuzione penale.
La vittima è una figura di sfondo, un testimone, con l’unica facoltà di spostare dal processo civile a quello penale, a determinate condizioni, l’azione per il risarcimento del danno.
Se questo retaggio reo-centrico aveva un senso storico nel contesto pre-Costituzionale, nel quale vigeva un diritto penale illiberale e privo di garanzie, tanto con riguardo ai sistemi di accertamento del fatto quanto all’inumanità delle pene (è sufficiente richiamare il grido di dolore e di rivolta scagliato dal Beccaria e dall’Accademia dei Pugni, nel 1764, contro la comunità dei giuristi), diviene però meno compressibile nella modernità post-Costituzionale, che pone nuove sfide e nuove frontiere per il diritto penale.
La prima delle quali consiste nel coglierne l’essenza garantista in linea con il significato propriamente filosofico del termine “garantismo” quale introdotto per la prima volta dal Fourier, vale a dire nel senso di un’azione anti-oppressiva per proteggere le vittime di tutte le forme di oppressione (con un deciso superamento dell’ottica unidimensionale nella lettura del sociale, del sessuale e del politico), a cominciare dall’oppressione capitalistica e dall’oppressione sessuale delle donne.
La necessità di cogliere la chiave anti-oppressiva del diritto penale, e quindi anche del garantismo penale, è tuttora evidente se si considera che le rilevazioni statistiche sono concordi nel rappresentare, negli ultimi trent’anni, una generale tendenza decrescente della criminalità, con eccezione, però, delle vittime di particolari categorie di reati, in particolare le vittime di violenza di genere e nelle relazioni strette, e le vittime delle morti sul lavoro.
Alle quali dovremmo aggiungere le vittime dei crimini commessi contro le persone migranti, che restano ontologicamente “crimini” (tali essendo le stragi in mare e la reclusione nei campi di detenzione libici) anche se tollerati, se non addirittura legalizzati da politiche di cri-immigration, volte a criminalizzare la migrazione e lo stato personale del migrante, non dissimilmente da come le leggi Jim Crow servirono a mantenere la segregazione razziale degli afroamericani dopo l’abolizione della schiavitù.
Il discorso dei diritti euro-unitario portato avanti, negli ultimi settant’anni, dal sistema multilaterale che fa perno sull’ONU, sull’Unione europea e sul Consiglio d’Europa, ha gradualmente promosso una visione dei diritti umani in chiave di contrasto ai sistemi di oppressione basati sul capitale, sul genere e sulla razza, e ha progressivamente introdotto, insieme a una lettura egualitaria e libertaria dei diritti umani, anche fonti sovranazionali, vincolanti e di soft law, che hanno impegnato gli ordinamenti europei a introdurre, nonostante le forti resistenze culturali, le prime disposizioni in materia di diritti e garanzie delle vittime nel processo penale, per trasformare ‒ questa è una delle grandi sfide della contemporaneità giuridica ‒ il diritto penale da strumento di oppressione a strumento di contrasto dell’oppressione e di protezione delle vittime.
Trasformare il diritto penale dei due processi simbolo della criminalizzazione della vittima negli Anni ’70, il Processo per stupro e il processo per l’omicidio Pasolini, nel diritto penale della sentenza della Corte d’Assise di Milano del 2017 (Presidente Giovanna Ichino) che, sulla base delle testimonianze delle vittime, portò alla luce il dramma dei migranti e le torture, le violenze e le uccisioni che vengono perpetrare nei campi di detenzione libici.
I diritti all’informazione, alla partecipazione, alla protezione e al supporto delle vittime durante il processo, sono essenziali per compiere questa trasformazione, invece che tornare indietro a un diritto penale che, dietro lo scudo teorico di un garantismo ideologicamente reo-centrico ‒ sempre, però, declinato con pesi e misure diverse a seconda del tipo di crimine e del tipo di imputato, come recenti vicende dimostrano in modo esemplare (per tutte, l’abolizione dell’abuso d’ufficio e il caso Almasri) ‒, nasconde una volontà di regressione del diritto sanzionatorio a strumento di forza di un potere che vuole auto-legittimarsi, sottrarsi al controllo di legalità e neutralizzare, con la forza della coercizione, ogni forma di dissenso.