Conferenza di MEDEL: introduzione di Nando Sigona

Docente ordinario di sociologia delle migrazioni internazionali all’università di Birmingham
 
Dobbiamo fermare questa carneficina”: Politiche di morte e soccorso nella crisi migratoria

Prima di tutto grazie mille per l’invito. E’ un onore e un piacere contribuire al dibattito  e a questo evento di Medel e di Magistratura Democratica. E ringrazio in particolare a Mariarosaria Guglielmi e a Riccardo De Vito per avermi invitato.

Quello di cui vorrei parlarvi riguarda il percorso delle politiche europee verso la cosiddetta “crisi migratoria nel Mediterraneo” , soffermandomi su alcuni momenti a mio avviso cruciali per anticipare la direzione verso cui ci stiamo muovendo. L’intervento si intitola “Dobbiamo fermare questa carneficina”: Politiche di morte e soccorso nella crisi migratoria.

Negli ultimi quattro anni quasi 1.850.000 persone hanno attraversato il Mediterraneo senza autorizzazione arrivando in Italia, Grecia e Spagna; quasi 18.000 persone sono morte o disperse nel medesimo periodo. Nel solo 2015, 845.000 persone sono arrivate in Grecia e circa 150.000 in Italia. A partire dal 2016, abbiamo assistito a una significativa diminuzione degli arrivi: è importante sottolinearlo perché mentre da una parte i numeri sono diminuiti in maniera sostanziale, come potete vedere dal grafico il picco di arrivi è concentrato in un periodo molto breve in Grecia, e lungo un arco temporare più lungo ma meno accentuato nel caso dell’Italia. Comunque, ben prima dell’arrivo del ministro Salvini i flussi avevano registrato un calo notevole. Questo dato è particolarmente rilevante perché se invece si considera il dibattito pubblico sulla crisi o se si ascolta il ministro degli Interni, l’impressione che si ha è che siamo ancora nel mezzo di una crisi delle frontiere mediterranee.

Il riferimento iniziale nel titolo dell’intervento proviene da un articolo che l’allora primo ministro Renzi scrisse sul New York Times il 22 aprile del 2015 in cui invitava l’Unione Europea ad assumersi una responsabilità per quanto stava accadendo nel Mediterraneo. Scriveva Renzi: «Il mar Mediterraneo, culla della nostra civiltà, sta diventando un cimitero per migliaia di uomini, donne, bambini, disperati e senza nome. Queste persone hanno vissuto vite piene di dolore, disperazione e speranza che li ha portati a diventare vittime di trafficanti di uomini. Le voci delle madri che hanno perso i loro bambini in mare perseguiteranno le nostre coscienze. Dobbiamo fermare questa carneficina». Quello che cercherò di fare in questo intervento è di lavorare intorno ad alcune delle parole chiave usate nell’articolo di Renzi, cercare in qualche modo di decostruirle per rivelarne aspetti non immediatamente visibili.

Prima di tutto, “la nostra civiltà”, la culla della nostra civiltà utilizzata come richiamo alla solidarietà.

Poi una riflessione sulla morte dei migranti e su quali migranti contano e perché ,e quali no.

Infine, una riflessione sull’ammissione di responsabilità offerta nell’articolo, un’ammissione limitata e circoscritta.

L’intervento di Renzi, in quella fase, era molto legato a questa idea che la crisi migratoria non fosse una crisi italiana, ma fosse una crisi europea per cui era un richiamo all’Unione Europea per un intervento, un coinvolgimento, un supporto. In una fase successiva è diventato qualcos’altro: è diventato un richiamo a una comunità globale, alla civiltà occidentale in qualche modo come soggetto responsabile di quanto stava accadendo. E infatti nel 2016 uno degli ultimi interventi di Barack Obama, prima di cedere il posto a Donald Trump, fu organizzare il Summit for Refugees and Migrants in New York. Quel summit ebbe un ruolo importante perché, nato sulla spinta di alcuni paesi europei che volevano il coinvolgimento di altri paesi nella gestione degli arrivi, ha lanciato un processo di 18 mesi che si è concluso lo scorso dicembre con l’approvazione da parte della Assemblea Generale delle Nazioni Unite dei due Compact sulle migrazioni e sui rifugiati. Si tratta di strumenti non legalmente vincolanti, ma con un ruolo importante di guida, potenzialmente simile ai Sustainable Development Goals (SDG), nel fissare obiettivi e un linguaggio condiviso nella comunità internazionale su come intervenire nella questione delle migrazioni e dei rifugiati. Il processo che ha portato ai Compact è stato diviso in tre fasi: una prima fase di conoscenza, in cui si sono svolti seminari e attività di raccolta dati; una seconda fase di drafting dei testi; un’ultima fase di negoziazione diplomatica. Il testo è stato approvato nell’estate del 2018, ma poi non è andato in discussione fino a dicembre nella conferenza intergovernativa di Marrakech. A quel punto è interessante come una serie di Stati si sono allontanati dal processo, in realtà pochi (5 o 6), quasi tutti europei e gli Stati Uniti d'America. Alcuni invece avevano inizialmente segnalato la volontà di non associarsi più ai testi ma invece si sono astenuti e ora, che l’attenzione mediatica e le pressioni politiche interne sono svanite, stanno riconsiderando la loro posizione. La politicizzazione dello strumento nella fase di approvazione è stato tale che uno degli ambasciatori, quello della Svizzera, che ha seguito il processo e che l’ha facilitato sin dall’inizio si è ritrovato alla fine a dover non firmare il documento. Un documento che per un periodo di tempo era rimasto quasi nel cassetto o “under the radar”, si è ritrovato ad avere una grossa visibilità e un’inaspettata attenzione da parte di movimenti politici antiglobalisti nella fase finale, per poi tornare nel cassetto subito dopo.

 Questo processo quindi era iniziato in qualche modo da un richiamo e una richiesta d’aiuto da parte dell’Italia e di alcuni paesi europei per un coinvolgimento globale nella gestione della crisi migratoria mediterranea. Ma non si sa ancora dove andremo e fra l’altro non sono ancora stati previsti meccanismi di monitoraggio e implementazione, per cui al momento si tratta di un testo scritto che non si sa dove andrà. Se dovesse ricevere sufficiente political capital, potrebbe ridefinire le politiche migratorie globali e i termini del dibattito pubblico sulle migrazioni.

Il secondo aspetto dell’intervento di Renzi su cui mi interessa soffermarmi riguarda il modo in cui le morti sono contestualizzate nelle politiche italiane e europee. Le tragedie che hanno visto centinaia e migliaia di persone morire nel Mediterraneo hanno avuto un ruolo fondamentale nelle risposte dell’Unione Europea in varie fasi, e in modi diversi.

Tre momenti, in particolare, catturano questa processo: il primo è la tragedia di Lampedusa nell’autunno 2013; poi la serie di incidenti dell’aprile 2015; infine, la morte di Alan Kurdi, il cui corpo senza vita fu ritrovato su una spiaggia turca. Parte del lavoro che sto svolgendo è riflettere su come è costruito il lutto, quali tragedie contano e quante persone e quali persone debbano morire perché si abbia una risposta da parte della Comunità Europea. In questo caso, visto il tempo ridotto, voglio unicamente puntare al fatto che, ad esempio, in risposta alla tragedia di Lampedusa ci fu il lancio dell’operazione “Mare Nostrum” guidata dalla Marina italiana che in un anno salvò quasi 153.000 persone. Successivamente alle tragedie dell’aprile 2015, il mese con il più grande numero di morti a mare registrate, avviene un importante cambio di direzione nel modo in cui si gestivano le operazioni di soccorso a mare in quella fase coordinate da Frontex. Successivamente a quell’evento, furono accresciute notevolmente le risorse per gli interventi di soccorso a mare e fu anche espansa l’area di intervento dell’operazione. L’ultimo momento forte e drammatico che ha trasformato le risposte europee è stata la morte di Alan Kurdi, in seguito alla quale la Germania lanciò la politica del “porte aperte ai rifugiati siriani”. In un solo mese, nell’ottobre 2015, questo cambio di approccio contribuì all’arrivo di quasi 200.000 persone sulle spiagge della Grecia. Quello è stato, in tutto il percorso della crisi dei rifugiati, il mese con il più alto numero di arrivi.

Quello che mi pare importante sottolineare è che è stato centrale nel mantenere l’attenzione su queste tragedie il ruolo delle organizzazioni non governative, soprattutto di quelle che avevano una presenza a mare. In qualche modo la capacità di portare testimonianze dirette ha svolto un ruolo importante nel rendere l’imperativo di #saving humans” – ho usato di proposito l’hashtag perché la crisi dei rifugiati è stata anche una crisi molto mediatica e molto costruita nei social media. Quindi è stato molto importante mantenere quell’ attenzione. Quello che però è accaduto successivamente è stato un processo di appropriazione dell’imperativo morale di salvare le persone da parte della Commissione Europea e dei governi nazionali. Con questo voglio indicare il fatto che si è iniziato ad affermare un certo tipo di discorso in cui il nostro dovere è salvare i migranti da loro stessi, e questo significa fermarli prima che salgano sulle barche della morte. Quindi, il messaggio dominante è diventato: li salviamo dal mare non permettendogli più di attraversarlo. Questo argomento è stato adoperato spesso negli interventi del commissario europeo Avramopoulos, per esempio per giustificare l’accordo tra l’Unione Europea e la Turchia, dicendo che così non sarebbe successa un’ altra tragedia come quella di Alan Kurdi. La cosa interessante e paradossale (di cui ho scritto fra l’altro in passato, vedi Unravelling the EU’s ‘migration crisis’, 2017) è che la rotta tra la Turchia e la Grecia era di gran lunga la più sicura: 1 persona ogni 1040 moriva nel 2015 attraversando dalla Turchia alla Grecia; e 1 persona ogni 50 attraversando dalla Libia all’Italia. Quindi, in realtà, porre un’enfasi su “dobbiamo salvarli non facendoli attraversare”, puntando su quella che era la rotta più sicura, era in qualche modo strano e paradossale. Come si sono riusciti?

Un elemento importante è stato far sparire dallo spazio umanitario le ONG: è stato il processo di criminalizzazione della solidarietà; è stata una serie di interventi della magistratura contro i volontari; è stato anche non rendendo più possibili le visite nei centri di accoglienza o comunque rendendole molto più difficili. Quindi c’è stato un doppio meccanismo di esclusione della società civile e delle organizzazioni non governative dal teatro delle operazioni di salvataggio e assistenza che ha permesso in qualche modo questo processo di appropriazione e di controllo del messaggio da parte delle istituzioni europee.

Nella fase successiva,  questo processo ha permesso di puntare su due tipi di intervento: un accresciuto investimento nell’esternalizzazione del confine europeo con la creazione di buffer zones, soprattutto in Nord Africa, ma anche lungo il confine orientale grazie all’accordo con la Turchia. Ovviamente, non è una novità: l’accordo tra Spagna e Marocco che limita i flussi in entrata in Europa va avanti da 15-20 anni, e la memoria della tenda di Gheddafi a Roma e le foto con Berlusconi sono ancora vivide. Quindi, si è riusciti a presentare l’esternalizzazione del confine europeo come la soluzione privilegiata per salvare le vite umane. Questo è chiaramente in contraddizione con quanto emerge dai resoconti dalla Libia, Niger e altrove lungo le rotte migratorie. Resoconti che ci giungono grazie a pochi giornalisti coraggiosi e organizzazioni non governative che non si lasciano intimidire o cooptare dai governi europei. Il pericolo di morte non è circoscritto al mare, per cui una risposta veramente umanitaria alle migrazioni forzate o per sopravvivenza non può ignorare questa realtà. Altrimenti siamo anche noi responsabili delle carceri illegali in nord Africa, delle morti nel deserto e del mercato degli schiavi  in Libia.

La seconda risposta europea, in qualche modo legata all’esternalizzazione, è stata utilizzare la condizionalità dei fondi di sviluppo per costringere o persuadere gli Stati a partecipare nell’esercizio delle funzioni di controllo delle migrazioni per i paesi europei. Questo si è visto nell’esempio nel caso del Niger che è diventato, in pochi mesi, uno dei maggiori ricettori dei fondi di sviluppo europei e uno di quelli con il più alto quoziente di aiuti umanitari pro-capite nel mondo. Si è creata quindi una politica di dipendenza dall’aiuto umanitario lungo il percorso del Mediterraneo centrale. Questo, tra l’altro, sta producendo anche una destabilizzazione politica della regione che potenzialmente potrebbe determinare, non nell’immediato ma nel medio termine, risultati opposti a quelli che sperano di ottenere i governi europei, perché, nel momento in cui si destabilizza il Niger, diventa anche più difficile controllare i flussi nella regione.

La terza direzione verso cui spingono i governi europei è quella dei Compact. Il modello che si sta utilizzando è il modello della Giordania, quindi l’idea è di creare delle aree di sviluppo industriale in cui rifugiati e migranti abbiano un accesso privilegiato al lavoro e quindi favorire l’integrazione lavorativa, una forma di ancoraggio, nelle regioni dove sono temporaneamente residenti. Il non tanto velato intento di immobilizzare le migrazioni e di immobilizzare i migranti e i rifugiati nelle regioni quanto più possibile lontane dal confine europeo. Il modello della Giordania è stato discusso abbondantemente, ad esempio, da Paul Collier e Alexander Betts. L’Etiopia al momento sta negoziando un altro di questi compact; se ne parla anche per la Turchia, un Compact turco che favorisca l’integrazione lavorativa di oltre 3 milioni di rifugiati siriani che vivono nel paese. Il problema di questi processi è che da una parte producono la “commodificazione” dei rifugiati, dall’altra  producono anche delle grosse tensioni interne, nel momento in cui si crea una percezione nella popolazione locale che rifugiati e migranti sono privilegiati.

In questo processo di ridefinizione della politiche migratorie globali, i termini adoperati per definire e descrivere la mobilità hanno svolto un ruolo cruciale. All’inizio della crisi migratoria, si parlava almeno in inglese molto spesso di “refugee crisis”. Gradualmente si è abbandonato il termine “refugees” e molto più spesso si è fatto ricorso al termine “migrant crisis” o “migration crisis”. Questo slittamento semantico ha incapsulato un importante cambiamento nella modalità di risposta a coloro che migrano, e nelle responsabilità che i governi europei si riconoscono verso coloro che attraversano il mare, e i doveri di protezione che i Paesi che hanno sottoscritto la Convenzione di Ginevra hanno verso i migranti.

La battaglia sui termini si è manifestata anche nell’ambito del dibattito sui Compact per rifugiati e migranti. La crisi migratoria nel Mediterraneo ha portato a una trasformazione della Global governance delle migrazioni, e nell’ambito di questo processo anche all’incorporazione dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni nella famiglia delle Nazioni Unite, con un mandato più o meno definito di prendersi cura dei migranti, mentre ovviamente l’Alto Commissariato per i Rifugiati continua ad avere il proprio mandato. Il problema è che nel momento in cui si accetta il fatto che la distinzione tra migranti e rifugiati talvolta è molto più difficile da tracciare di quanto non si assuma, è evidente che ci troviamo in una fase in cui le maggiori agenzie internazionali competono, per esempio attraverso la produzione di rapporti, dati, infografiche, per la definizione delle mobilità e di coloro che si muovono.

  Perché questo conta? A un certo punto, durante la mia ricerca, mi sono trovato a dialogare con un signor Policy Advisor di una organizzazione internazionale che faceva soccorso in mare. In una conversazione via e-mail, a un certo punto mi scrive:

«All’interno della nostra organizzazione, ci troviamo a discutere da un punto di vista operativo cosa fare, se continuare o meno a fare i salvataggi a mare. C’è una parte dei nostri colleghi che dice che dovremmo concentrare le nostre risorse sui rifugiati, perché i rifugiati sono una categoria meglio definita, hanno fra l’altro lo spazio di protezione, l’asilo sta riducendosi per cui è importante che lavoriamo in questo senso».

Se la decisione è di abbandonare le azioni di salvataggio, dati mostrano che il tasso di mortalità a mare aumenta notevolmente. Il problema è anche un altro:  come si fa in mezzo al mare, quando intercetti una barca, a decidere chi è un rifugiato e chi no? Significherebbe basare la decisione su un riconoscimento della lingua o del paese di provenienza, cosa che fra l’altro viene esplicitamente negata all’interno della Convenzione di Ginevra. Quest’esempio mostra come la questione dei termini da utilizzare e della definizione della mobilità è tutt’altro che astratta e il fatto che venga articolato anche in un’organizzazione che ha salvato migliaia di persone ci dà un’indicazione di quanto sia importante la questione delle definizioni e di come abbia avuto anche un ruolo politico nelle scelte che venivano fatte da varie organizzazioni. Questa organizzazione, come altre, alla fine ha continuato ad operare fino a quando non è stata di fatto espulsa dal Mediterraneo dall’intervento del governo italiano.

Nell’ultima parte di questo intervento è invece portarvi degli esempi da una ricerca che ho condotto insieme a colleghi dell’Università di Oxford (Franck Duvell) e di Coventry (Heaven Crawley, Katharine Jones e Simon McMahon) tra il 2015 e il 2016 proprio sugli arrivi dalla Libia e dalla Turchia. Abbiamo fatto 500 interviste con persone arrivate nel 2015 in Italia e Grecia, e oltre 100 interviste con informatori privilegiati in questi paesi. Quello che voglio mostrarvi, tornando a Renzi e al richiamo di solidarietà per fermare la carneficina, è che nelle sue parole, Renzi fa esplicitamente riferimento al fatto che bisogna fermare la carneficina a mare. Dice che non possiamo accettare che il Mediterraneo diventi un cimitero; non possiamo sopportare le madri che piangono i figli morti in mare. La nostra ricerca, come fra l’altro vari rapporti di organizzazioni internazionali, mostra invece che quasi il 20% delle 500 persone che abbiamo intervistato sono state testimoni diretti di morti, hanno visto compagni di viaggio morire e non solo nel mare. Anzi, la maggior parte di questi episodi era avvenuta a terra, prima di raggiunge le spiagge della Libia e della Turchia. Un altro aspetto interessante, perché molto del dibattito si è concentrato sulle morti nel tratto tra la Turchia e la Grecia (vedi l’esempio di Avramopoulos), è il fatto che la maggior parte degli episodi riportati era avvenuto tra i migranti che avevano attraversato la rotta centro mediterranea piuttosto che quella dell’Egeo. Infine, la maggior parte di questi episodi era avvenuto in Nord Africa, in particolare in Libia, mentre le persone che hanno riportato gli episodi erano nella stragrande maggioranza provenienti dall’Africa occidentale.

Ritornando alle parole di Renzi sull’obbligo di salvare le persone dal rischio di morire a mare, le interviste con i migranti offrono una lettura diversa di questo rischio. Molta enfasi nel Compact sulle migrazioni è posta sul fatto che i migranti devono essere resi coscienti dei rischi che corrono nel attraversare il mare, come se non lo sapessero! In realtà, se si concentra l’attenzione non unicamente sul mare ma su tutto il percorso, si capisce qualcosa di diverso. Tra le cose che ci sono state dette vi è il fatto che una volta che si è arrivati al mare, dopo aver passato una serie di esperienze estremamente traumatiche di violenza, di incarcerazione, di pericolo il mare rappresenta l’ultimo passo verso la libertà, verso la speranza. Quindi, il concentrarsi unicamente su quell’ultimo momento nelle risposte europee, in qualche modo ci produce una lettura distorta dei motivi per cui le esperienze di violenza e di morte diventano anzi un propulsore per il movimento.

Ritornando al punto precedente sul tentativo di qualificare coloro che arrivano dal Nord Africa e dall’Africa subsahariana come migranti economici (questo lo abbiamo sentito dire parecchie volte), quello che abbiamo notato nella nostra ricerca è che soprattutto nel caso dei viaggi di lungo periodo, durati più di due anni, le motivazioni per il movimento cambiano, sono estremamente legate alle circostanze locali. Per esempio, molte persone che abbiamo intervistato erano migranti economici in Libia e si sono ritrovate bloccate lì senza lavoro a causa della guerra civile. Hanno riportato una crescita nella frequenza di episodi di razzismo, condizioni assimilabili a schiavitù, violanza generalizzata e sfruttamento del lavoro. Attraversare il mare, per queste persone significa cercare rifugio, sopravvivere.

Le interviste mostrano come nello stesso percorso migratorio, soprattuto in quelli di lunga durata, ci possano essere più motivazioni che intervengono a propellere il movimento e che etichettare gli individui sulla base della motivazione alla partenza (e della lingua che parlano) sia un approccio inadeguato.

In conclusione, la morte dei migranti è un elemento centrale della costruzione della risposta europea ai flussi migratori mediterranei. Nel corso della crisi abbiamo osservato come il discorso umanitario sia stato coptato dai governi europei e strumentalizzato per produrre delle politiche che sono diventate in maniera crescente restrittive. Mobilitato per giustificare, per esempio, l’accordo con la Turchia nel 2015-16, e la chiusura della rotta centro mediterranea. Elemento importante di questa appropriazione è stata la battaglia semantica sul come definire coloro che attraversano il mare. Battaglia che non è stata certo risolta dai Compact per i rifugiati e i migranti, ma piuttosto caratterizzerà il dibattio nazionale e globale sulle migrazioni negli anni che verranno, in quanto nodo centrale nella distribuzione di competenze e potere tra UNHCR and IOM e nell’architettura delle politiche europee, perché in qualche modo dire che i migranti che arrivano dalla rotta del Centro Africa non sono rifugiati ma sono migranti economici in condizioni di povertà giustifica una minore presa di responsabilità da parte della comunità internazionale e risposte più restrittive verso queste forme di mobilità.

Infine, i dati hanno mostrato come che il viaggio, tutto non solo il passaggio a mare, possa essere pericoloso e che le politiche europee di esternalizzazione contribuiscono a questa realtà. Il passaggio a mare è solo l’ultima tappa di questo viaggio, per molti l’ultimo ostacolo verson la libertà, come ci ha raccontato una delle nostre intervistate:

«Avevamo paura sulla barca, potevamo morire; ma a quel punto, dopo tutto quello che avevamo passato e visto in Libia e negli altri Paesi, non ti importa. Se arrivi viva, bene. Non ti importa se muori, forse è anche meglio. Se arrivi viva, bene; se no, va bene lo stesso».