Intervento di Ezia Maccora

Al congresso di Bologna avevo augurato a Magistratura democratica un biennio di intenso lavoro politico, senza alzare steccati ma creando ponti, innanzitutto con Area democratica per la giustizia, ma anche con quella parte dell’avvocatura e della comunità giuridica che voleva percorrere un pezzo di strada insieme a noi nell’ambito della giurisdizione per rimuovere le nuove diseguaglianze e nel campo dell’amministrazione della giurisdizione per assicurare ai cittadini magistrati e dirigenti culturalmente e professionalmente attrezzati.

Oggi posso dire che il tempo dei ponti, delle aggregazioni, della sinergia su progetti netti vi è stato e né ha dato ampiamente conto Mariarosaria Guglielmi nella sua importante relazione.

Una relazione che sottolinea il lavoro fatto per riportare al centro di una riflessione collettiva la centralità della giurisdizione, e soprattutto il ruolo del giudice imparziale, ma non neutrale rispetto ai valori costituzionali.

Perché è sulla giurisdizione che si scaricano le maggiori tensioni.

Una riflessione in cui mi riconosco appieno e che, partendo dalla complessità del momento che stiamo vivendo, traccia una chiara prospettiva politica per Md, per il ruolo che può svolgere nella società,  nella magistratura ed in Area democratica per la Giustizia,  se si pensa ai diritti calpestati e alle diseguaglianza acuite che sono quotidianamente sotto i nostri occhi.

Il 25 febbraio il segretario generale dell’Onu, nel discorso di apertura del Comitato per i diritti umani, ha ricordato come il mondo sia alle prese con una ondata di xenofobia, razzismo ed intolleranza e come i diritti umani stiano perdendo terreno a livello globale. Stiamo assistendo, ha detto, ad un restringimento dello spazio civico. E il termometro di questa di questa emergenza è rappresentato da oltre mille giornalisti ed attivisti per i diritti umani che sono stati uccisi negli ultimi tre anni.

Quello che vediamo ogni giorno nel nostro Paese conferma l’allarme lanciato.

In Italia nel 2018 abbiamo registrato 128 episodi razzisti, oltre il triplo di quelli del 2017 e quasi 10 nell’ultimo mese, dal maestro della scuola di Foligno che umilia due alunni di colore all’episodio denunciato da un paziente senegalese ricoverato in un Ospedale del salernitano che si è visto augurare la morte per il colore della sua pelle.

Davanti a questa terribile emergenza, sono cambiate le persone, il rispetto tra Istituzioni, il concetto stesso di rappresentanza.

Gli sconfinati orizzonti globali suscitano grande paura, le persone non si sentono più protette ma anzi minacciate dall’arrivo dei lontani, dalla fragilità dell’economia, da quello che percepiscono come violento.

L’egoismo cresce a dismisura e gli stessi migranti vengono vissuti come il volto dell’insicurezza.

Un sentimento che nulla ha di razionale se si pensa che i dati statistici parlano di un ingresso nel 2018 pari all’80 % in meno di quelli arrivati nello stesso periodo dell’anno precedente e che le nostre città non sono insicure come vengono descritte.

Nessuna invasione, nessuna città in mano ad assassini, stupratori e rapinatori se si guarda ai numeri.

Ma la razionalità lascia il posto alla rabbia, come dimostra il sentire di tanti cittadini sul tema della legittima difesa, una rabbia che trova interpreti politici capaci di rinfocolarla.

Rabbia in tanti soggetti figli della società del consumismo, dell’insoddisfazione, dell’assenza del limite.

Soggetti che non si trovano più rappresentati nelle Istituzioni che disprezzano, additandole come casta responsabile di tutti i mali, da eliminare e combattere.

Soggetti che vivono spesso nelle periferie delle nostre città, che un tempo erano abitate da associazioni, partiti, sindacati che costituivano una galassia di corpi intermedi che le legava alle Istituzioni ed alla Politica con la P maiuscola.

Tutto questo oggi non c’è più. I cittadini, come ha detto Franco Ippolito stamattina, si sono sentiti abbandonati.

Nell’era della Rete in cui tutti possono votare stando seduti nel salotto della propria casa, non vi è differenza tra premere un bottone per cacciare un cantante da X Factor o un vip dal Grande Fratello e espellere un parlamentare che non si è attenuto alle direttive.

Ma soprattutto nella diffusa solitudine che contrassegna la nostra epoca, emerge sempre di più il bisogno per l’individuo di identificarsi nell’uomo forte che rappresenti il suo sentire e rassicuri le sue paure.

Ed ecco allora che lo slogan “vengono prima gli italiani” fa breccia, e si è disposti a volgere lo sguardo altrove anche rispetto alla tragedia del mediterraneo.  

Non v’è dubbio, come ci ha ricordato ieri Luigi Ferrajoli che viviamo una stagione di ostentazione della disumanità e dell’immoralità.

Non ci si indigna abbastanza neanche verso chi, ricoprendo ruoli pubblici, risponde all’invito di una giovane cantante di “aprire i porti” con quello becero e vergognoso “di aprire le cosce e farsi pagare”.

Non si tratta di mere contingenze ma di cambiamenti profondi che richiedono risposte di lungo periodo a cominciare dal tornare ad investire sulla cultura per arginare le paure dei cittadini in un mondo complesso.

Non sono questioni nuove, perché, come ci ha ricordato Gad Lerner, vi è una straordinaria continuità di linguaggio.

Ed ecco perché dobbiamo prestare attenzione, come cittadini, prima ancora che come magistrati, anche a quei piccoli segnali che sono espressione di una preoccupante regressione culturale, che devono farci aprire gli occhi.

E’ notizia di questi giorni l’adozione di alcuni libri di testo per le scuole elementari dove per descrivere il ruolo della donna e dell’uomo nella nostra società si perpetuano vecchi stereotipi. La mamma è colei che cucina e stira e il papà quello che lavora e legge.

Luoghi comuni che ben esprimono il contesto culturale che viviamo e da cui originano scelte legislative come quella del disegno di legge Pillon.

Così come significativa risulta la scelta di abolire la traccia storica nei temi di maturità rispetto alla quale inascoltato è rimasto l’appello rivolto dalla senatrice Liliana Segre che ha sottolineato il forte legame tra conoscenza storica e esercizio della cittadinanza, dato che proprio la conoscenza storica rende capaci di orientare criticamente le proprie azione nel bene e nel male (Zagrebelsky).

Si tratta di scelte culturali, che vengono sempre più sbeffeggiate nella stagione della semplificazione in cui tutto viene sbriciolato sulla misura di un twitter, dove ogni problema si consuma nel tempo di un annuncio, dove alla capacità di analisi si sostituisce la battuta o la foto su instagram ed al confronto l’insulto e la delegittimazione dell’interlocutore.

In questo contesto populista, ben descritto nelle due sessioni di lavoro di questi giorni, avanza sempre più il rifiuto di avere un luogo politico e culturale per il riconoscimento reciproco tra le istituzioni ed i cittadini.

Tutto viene rimesso in discussione, nel dileggio di ogni competenza ed in nome di un presunto rispetto della volontà del popolo contrapposta al sapere.

Ed il passo è breve per l’ulteriore balzo in avanti verso l’invasione delle prerogative delle altre Istituzioni. Il rispetto delle stesse leggi si valuta sulla base del consenso, con sgrammaticature continue per uno Stato di diritto, con un ministro dell’Interno che vuole racchiudere sulla sua persona il ruolo politico, giudiziario e legislativo, ricordando che chi è eletto dai cittadini è intoccabile da parte di coloro, i magistrati, che eletti non sono.

E così anche il diritto-dovere dell’associazione nazionale magistrati di esprimersi tecnicamente sulle proposte di legge, evidenziando profili di incostituzionalità, costituisce motivo di scontro, trattandosi di soggetti non eletti dal popolo e quindi non legittimati alla parola.

Vecchi suoni di campane che ritornano.

In questa corsa al confronto muscolare si arriva perfino a perdere quella “pietas” che dovrebbe appartenere a tutti gli umani tanto che di fronte ad un fermo di polizia, dove un cittadino tunisino ha trovato la morte, non ci si preoccupa di usare pubblicamente frasi sprezzanti (“cosa dovevano offrirgli i poliziotti cappuccino e cornetto?).

In questo incultura, anche istituzionale, anche la giurisdizione viene travolta e la magistratura delegittimata se non fornisce risposte in linea con la volontà del popolo. Ed ecco che se le prove acquisite nel contraddittorio delle parti e nel rispetto delle garanzie non consentono la condanna che il popolo si attende, è il giudice ad essere messo in discussione, fino a giungere alla sua aggressione fisica.

Gli episodi sono molteplici e rappresentano una preoccupante escalation di chi ricerca una giustizia sommaria o la propria pubblica o personale vendetta.

Ed ancora più grave risulta il comportamento di chi, rivestendo ruoli pubblici alimenta, senza alcun senso del ruolo e della misura, alla ricerca di un facile consenso, un clima di delegittimazione esiziale per la democrazia e lo stato di diritto.

Ancora una volta il suono di una campana conosciuta, dalla manifestazione sulle scale del palazzo di giustizia di Milano da parte di chi rivestiva ruoli istituzionali per manifestare solidarietà a Berlusconi nel giorno dell'udienza del processo Ruby alla visita del Ministro degli Interni al detenuto condannato per tentato omicidio solidarizzando pubblicamente con chi si ritiene non meriti il carcere nonostante sia responsabile di un gravissimo delitto accertato con sentenza irrevocabile.

La stessa insofferenza verso coloro che sono chiamati ad applicare la legge.

In questo contesto sempre più spazio si apre per la magistratura di orientamento democratico, per Area democratica per la giustizia e per la voce più “radicale” di Magistratura democratica, entrambe voci di cui non possiamo privarci ed in cui ci riconosciamo e che hanno, come ci ha ricordato Nello Rossi, iscritto l’aggettivo “democratico” nella loro ragione sociale, cioè “il rapporto con il demos, il dialogo con il popolo, l’attenzione alle istanze popolari che sarebbero stati la loro stella polare nel pensare i problemi della giustizia e dei diritti.”

Ne sono testimonianza diretta il lavoro svolto in questi ultimi anni da Area democratica per la giustizia e da Cristina Ornano ed il coordinamento.

Ne sono testimonianza diretta il lavoro svolto da Magistratura democratica all’interno di Medel e quello portato avanti nella Rivista Questione Giustizia.

Né è testimonianza questo Congresso e la vivacità della riflessione collettiva che si è avuta in queste due giornate, nel confronto con l’avvocatura, l’accademia, ed esponenti della società civile e politica.

In questi ambiti è essenziale andare avanti e per farlo c’è bisogno della magistratura di orientamento democratica, e di Magistratura democratica, della sua capacità di cogliere gli aspetti “politici” delle questioni, della sua capacità di relazione con l’esterno, dell’autorevolezza della sua storia.

La complessità del momento storico richiede l’unità di tutta la magistratura, e soprattutto di quella di orientamento democratico. 

Occorre proseguire con convinzione sulla strada di utile sinergia tra Magistratura democratica ed Area democratica per la giustizia, nella consapevolezza che un pluralismo di voci verso un unico obiettivo è fattore di forza e non di debolezza. La voce e la presenza di Md, in un contesto che richiede un’azione di resistenza culturale e ampie sinergie per la difesa dei nostri valori democratici, è irrinunciabile.

Se condividiamo il giudizio sulla gravità del momento storico, sulla importanza del ruolo dei magistrati nell’era del populismo,  sulla necessità di creare sempre più alleanze e sinergie con l’accademia e l’avvocatura, dobbiamo essere consapevoli che nessuno oggi capirebbe ed approverebbe una divisione tra magistrati che si riconoscono in Magistratura democratica ed in Area democratica per la Giustizia.

Il compito che ci attende, nell’agire uniti, è quello di favorire la rinascita della passione associativa a partire da chi si affaccia a questa bellissima nostra funzione. Si tratta di un investimento resiliente e di lungo periodo.

 Un investimento non contro qualcuno ma per dire che un’altra visione del mondo è possibile, perché può esserci una Europa dei diritti, della solidarietà e delle libertà, perché, come ci ha ricordato Carofiglio, oggi il tema della giustizia è il tema dell’uguaglianza.

Concediamoci il tempo che ci serve, senza fughe in avanti e senza passi indietro.

Ribadiamo da questo Congresso una unità di intenti ed un lavoro comune e sinergico.

Concludo.

La nostra realtà associativa è una piccola società e vale anche in questo campo l’invito che il presidente Mattarella ha rivolto ai cittadini nel messaggio di fine anno: occorre sentirsi “comunità” e ciò significa condividere valori e prospettive, diritti e doveri.

Significa legittimarsi reciprocamente.

Significa “pensarsi” dentro un futuro comune, da costruire insieme.

Un invito importante da raccogliere e far proprio.

Vi ringrazio.