Intervento di Letizio Magliaro

Ci muoviamo nei territori dell'antipolitica, che si presentano nelle forme descritte da Gustavo Zagrebelsky citato nella lucida relazione di Mariarosaria Guglielmi, antipolitica intesa come rinuncia o incapacità di dare forma alla volontà popolare nelle forme democratiche.

Ma, se viviamo nel tempo dell’antipolitica, allora, oggi più che mai dobbiamo ribadire con forza «l'insopprimibile politicità della giurisdizione», secondo la felice espressione usata dal nostro amico Carlo Verardi al congresso di Venezia, che mi piace qui ricordare.

L'insopprimibile politicità della giurisdizione la dobbiamo rammentare a noi stessi e ai nostri compagni di strada, magistrati a noi vicini per impegno e orientamento politico, ma anche a tutta la magistratura e all'opinione pubblica.

La politicità della giurisdizione non riguarda soltanto il suo concreto esercizio, che è lo scenario nel quale possiamo osservare i conflitti tra interessi contrapposti, e dove dunque emergono e si confrontano le scelte discrezionali, e quindi politiche, che hanno trovato la loro mediazione nel dato normativo scelto dal legislatore.
La politicità della giurisdizione riguarda soprattutto il ruolo ad essa affidato dalla costituzione.

Il nostro disegno costituzionale si fonda sulla convinzione tratta dalle dure lezioni della storia, che il giusto e il politicamente utile non sempre coincidono. Il conseguente sistema di poteri divisi, con pesi e contrappesi serve a garantire l'esistenza di un'area di tutela sottratta alle maggioranze contingenti: per la nostra Costituzione non tutto è decidibile a maggioranza e ci sono delle questioni che non possono non essere decise, come scriveva Ferraioli in Diritto e ragione. Ma in questo quadro l'esistenza di una giurisdizione che svolge una tale funzione di limite, e quindi in potenziale contrapposizione alle decisioni del sistema politico, assume essa stessa una connotazione politica. È la funzione politica attribuita dalla Costituzione alla giurisdizione che si invera nella costante tensione e confronto tra quanto il mondo della politica vuole e può decidere e quanto il giudice, soggetto soltanto alla legge, e prima di tutto a quella costituzionale, deve tutelare.

E dunque la politicità della giurisdizione risulta proprio da quell’essere soggetti soltanto alla legge affermato dall'articolo 101, comma 2, della Costituzione, laddove l'accento deve essere posto in quel soltanto, come scriveva Pino Borré, il che significa disobbedienza a ciò che legge non è, in primo luogo disobbedienza al pasoliniano palazzo, disobbedienza ai potentati economici e d'altro tipo, disobbedienza a qualsiasi interpretazione della legge che neghi la legalità costituzionale.

Ed allora questo ineludibile profilo politico della giurisdizione genera tensioni e reazioni tutte le volte che si manifesta nel richiamo e nella difesa di valori costituzionali sottratti al volere di maggioranze contingenti di governo. Tutte le volte che l'operato di varie maggioranze di governo cerca di entrare in quel recinto di indecidibilità di cui la giurisdizione è guardiana, e trova per questo l'ostacolo proprio nell'agire e nel dire della giurisdizione, allora sono del tutto inevitabili i momenti di tensione e conflitto.

È inutile addentrarsi negli esempi che tutti abbiamo in mente: l'aggressione alla esistenza stessa e alla dignità della persona umana nel trattamento riservato ai migranti; l'aggressione alla gerarchia di valori costituzionali della vita e della proprietà nella proposta di modifica alla disciplina della legittima difesa solo per citare i più attuali.
Ma se ciò è vero, ne consegue che non possiamo misurare la necessità o l'opportunità di ribadire questo tratto politico della giurisdizione in base all'entità o alla scompostezza delle reazioni cui assistiamo. Proprio perché esse sono espressione di quel possibile conflitto che il costituente ha inteso disciplinare con il metodo del check and balance, non è possibile perseguire l'obiettivo di una perenne e definitiva “pace” con la politica, perché ciò significherebbe la rinuncia al ruolo costituzionale affidato alla magistratura.

È bene intendersi: che il concreto esercizio della giurisdizione possa avere comunque un profilo di “politicità” è un dato che forse, anche se non affermato, è tuttavia accettato, con varie sfumature, dall'intera magistratura.
I problemi sorgono quando quella politicità non si esprime limitandosi soltanto all'esercizio dell'attività giurisdizionale, ma si manifesta in un cerchio più ampio, e si rivolge all'intera società e al mondo della politica stessa.
È su questo modo di intendere la politicità della giurisdizione che Magistratura democratica ha scritto la propria storia e trova ancora, a mio avviso, le ragioni della sua esistenza.

Ed infatti, nel riconoscere i tratti potenzialmente conflittuali di questa politicità, nel riconoscere che essi sono l'ineludibile conseguenza del disegno costituzionale del bilanciamento dei poteri, occorre affermare che la loro difesa assume necessariamente un profilo politico, e proietta i suoi interpreti fuori dagli steccati della semplice attività giurisdizionale. Dunque, nel più ampio territorio del dibattito pubblico, del confronto con le istituzioni, della critica ai provvedimenti giudiziari. E questi interventi risultano quindi non semplicemente consentiti, ma dovuti, nel momento in cui si considera il carattere immanente della politicità della giurisdizione come presidio della sua effettività.
Credo che proprio su tale terreno si misuri il senso specifico dell'esistenza di magistratura democratica.
Non per rivendicare orgogliosamente differenze, ma per offrire, con umiltà, un punto di vista che però riteniamo imprescindibile.

Le tensioni che abbiamo avvertito con Area, il gruppo che pure Md ha contribuito a far nascere, credo che abbiano sullo sfondo una diversa valutazione di questa questione. Credo che nessuno di noi sia tanto sprovveduto da pensare che i conflitti con Area si giochino nella differenza tra “concerto” e “armonizzazione” degli interventi tra i due gruppi, ma che dietro il disagio manifestato ad accettare una voce autonoma di Magistratura democratica vi sia la preoccupazione che quella voce autonoma è portatrice di una concezione della politicità della giurisdizione che necessariamente disturberà sempre il “manovratore” perché ritiene inevitabile, nei momenti di crisi, il conflitto con il potere; perché non si esprime in forme idonee a ottenere il consenso popolare (e quindi siamo molto lontani da qualsiasi idea di “partitino”, come qualcuno teme) perché non cerca la benevolenza della classe politica, perché, come scriveva Marco Ramat, il nostro unico padrone è la Costituzione.
E se questa voce esiste, a mio avviso non può tacere neppure e soprattutto sui terreni più specifici della vita della magistratura: l'autogoverno e l'associazionismo giudiziario, dal momento che è evidente che la funzione di controllo e di limite di cui abbiamo parlato finora si manifesta principalmente nelle concrete scelte che Anm e Csm sono chiamati ad operare.

Non penso che un tale intervento significhi rinnegare il percorso intrapreso per far nascere Area, dal momento che questo soggetto, per la sua natura inclusiva e aperta è in grado di raccogliere e convogliare anche differenti prospettive sui temi indicati dell'autogoverno e della politica associativa, ma l'esistenza di una molteplicità di prospettive non può significare impoverimento, bensì al contrario arricchimento. Il timore che uno dei due gruppi possa essere danneggiato dall'esistenza di una voce, vicina e amica, ma non pienamente sovrapponibile, significa occuparsi esclusivamente del bene di quel gruppo, e perdere di vista lo scopo di un allargamento dei confini di una magistratura sempre più responsabile e costituzionalmente orientata.

Mi è sembrato di intendere, ma probabilmente ho capito male io, in alcuni interventi del dibattito precongressuale, che affermare e, uso un termine forte, rivendicare, questo ruolo per Magistratura democratica significhi trincerarsi dentro l'identitarismo, mostrare disprezzo o supponenza verso le altrui opinioni. Credo, al contrario, che significhi, con molta umiltà e consapevolezza dei limiti della propria presenza, offrire all'intera magistratura e ai più vicini compagni di strada un punto di vista che pensiamo prezioso per la difesa dei valori e principi in cui tutti crediamo e ci riconosciamo.