Intervento di Giuseppe Santalucia, Presidente ANM

 

1. La Relazione di apertura di Mariarosaria Guglielmi ha offerto una lucida analisi del presente che la Magistratura sta vivendo.

Coglie, tra gli altri, un punto che mi pare rilevante. 

Sono sempre più quelli che oggi revocano in dubbio la legittimazione dei magistrati, dell’Associazione, a prendere la parola nel dibattito pubblico sulla giustizia. 

Se si esprime una critica, qualche dubbio, un punto di vista in apparente controtendenza con quel che appare il pensiero dominante, si è accusati di essere e muoversi come “casta”.

Una “casta” animata dal desiderio di conservare privilegi, che non si fa scrupolo, per contrastare le riforme invise, di far pesare il ruolo istituzionale e i poteri che ad esso sono collegati. 

Le difficoltà del presente non sono soltanto problemi di comunicazione, che già non sono di poco rilievo.

C’è un nodo ancora preliminare, il doversi confrontare con l’accusa di fare indebitamente politica, di fare politica per interessi corporativi, ancora e peggio di perdere, per il fatto di esprimere una posizione critica, in imparzialità e terzietà.

Sono modi di intendere il rapporto tra magistratura e sfera pubblica all’apparenza meno brutali di quelli espressi da quanti invocano lo scioglimento dell’ANM.

Ma, in fin dei conti, esprimono una stessa sensibilità, una comune avversione per il fatto che l’Associazione dei magistrati partecipi alla discussione. 

Viviamo dunque un tempo complicato, che deve indurci a sperimentare, giorno per giorno, il valore dell’unità. 

Con il fardello di vecchie ed assai poco commendevoli gestioni associative, ravvivate continuamente dal racconto di chi ne è stato protagonista o co-protagonista, ci si può trovare nell’angolo. 

Eppure, offrire un contributo di idee, un argomentato punto di vista, un sapere di esperienza, quando è in gioco l’assetto della giurisdizione, è per l’ANM, prima ancora che un diritto, un dovere; ed è un profilo particolarmente qualificante della sua azione. 

Su questo terreno la magistratura associata deve dar prova di non esser condizionata da interessi propri e di saper pensare e agire avendo di mira la qualità della giurisdizione, il bene collettivo di un’amministrazione della giustizia quanto più in linea con l’assetto costituzionale e con i bisogni di tutela che la società esprime. 

Va ricordato che è proprio su questo versante che l’Associazione si è storicamente strutturata.

Spetta a noi tutti, ed è qui che il valore dell’unità associativa si apprezza al meglio, far sì che le deviazioni e le degenerazioni di alcuni momenti della sua Storia non ne alterino la fisionomia.

Compito che oggi appare, lo riconosco, quasi impossibile. 

Ma la consapevolezza della grande difficoltà deve essere di stimolo all’impegno e non ragione di scoramento!

Deve essere di richiamo ad uno sforzo, forse straordinario in ragione della pesante crisi innescata dagli scandali giudiziari – vicenda Palamara e non solo –, volto a conservare le condizioni di normalità democratica dell’azione associativa. 

 

2. Il duplice effetto della crisi di credibilità si coglie lungo una stessa direttrice: l’indebolimento dei diritti dei magistrati. 

Si vorrebbe, come ho accennato, ridimensionare il diritto di associazione, con una limitazione del campo ai profili strettamente sindacali.

Si vorrebbe, ancora, che i magistrati perdessero il diritto di elettorato per la composizione del Csm. 

Il portato della crisi, se prevalessero queste istanze dallo sguardo decisamente rivolto a un lontano passato, si risolverebbe nella compressione dei diritti di associazione e di voto, e quindi nello svilimento del valore della rappresentanza.

Il tema è quello di sempre. 

L’interpretazione ricorrente del ruolo del magistrato entro i confini di un funzionariato tecnico, paventando che, fuori da quel recinto, ci si muove su accidentati e pericolosi terreni, dove le pietre d’inciampo sono tante e inevitabili.

So bene che la promessa costituzionale di una magistratura all’altezza del suo limpido statuto di autonomia e di indipendenza è stata più e più volte tradita. 

Ma il tema centrale è se, a causa di cadute e fallimenti, quella promessa debba essere revocata, rispolverando il vecchio modello di magistrato funzionario, o se, invece, vada riaffermata, studiando tutte le soluzioni possibili per renderla maggiormente effettiva. 

È su questo punto che bisogna essere chiaramente comprensibili al nostro interno e all’esterno. 

 

3. Alcune delle proposte riformatrici hanno un denominatore comune: la separazione

3.1. Una prima separazione è quella del pubblico ministero dalla giurisdizione, propugnata con il dichiarato fine di rendere il giudice più indipendente, ma, a me pare, senza sufficiente considerazione degli inevitabili sviluppi successivi. 

Non ci si può non chiedere di quale indipendenza dalla Politica e dal Governo potrebbe godere il pubblico ministero, una volta separato dalla giurisdizione, e quindi di quanta indipendenza potrebbe beneficiare la stessa giurisdizione penale, che opera per necessità su impulso del pubblico ministero. 

La contrarietà alla separazione non vuol dire che si neghino alcune criticità e quindi l’utilità di una riflessione sulla posizione del pubblico ministero all’interno del processo, per valutare possibili squilibri con la parte privata specie nella fase delle indagini. 

Occorre però chiedersi, al di là di ogni apprezzamento nel merito della denuncia dello strapotere dell’inquirente, se a questo fine sia veramente funzionale la separazione. 

Guardo non al quesito referendario, ma alla eventuale pars costruens costituita dal disegno di legge costituzionale n. 14, di iniziativa popolare, a cui ieri ha fatto riferimento il presidente della Unione delle Camere penali.

Nel tentativo di assicurare al pubblico ministero autonomia e indipendenza, al pari dei giudici, si formerebbe il Csm della magistratura inquirente del tutto sovrapponibile, quanto a struttura, a quello della giudicante.

Un numero di pubblici ministeri pari a quello della componente laica, anzi superiore se si computa il componente di diritto, il Procuratore generale presso la Corte di cassazione, e certo di gran lunga superiore a quello dell’attuale unico Csm. 

Oggi su organizzazione degli Uffici di Procura, sulle nomine negli Uffici di Procura, sulle carriere dei pubblici ministeri decide l’unico Csm in cui i magistrati del pubblico ministero solo soltanto quattro (cinque a voler computare il Procuratore generale presso la Corte di cassazione), pari a un sesto dell’intera assemblea. 

Un domani potrebbero essere, nel loro Csm, la metà, se non, come detto, poco più, e quindi con un potere di gran lunga accresciuto. 

È questo il ridimensionamento della figura del pubblico ministero a cui si mira?

É facile prevedere che questo smisurato ampliamento di poteri potrebbe non essere tollerato.

Sarebbe democraticamente necessario ricondurre quel PM ingigantito nell’area della responsabilità politica, alle dipendenze del Governo e in palese controtendenza con il movimento culturale che nei vari Paesi europei sta conducendo ad un potenziamento della sua indipendenza.

 

3.2. Una seconda separazione dovrebbe intervenire nella relazione tra Csm e i magistrati, affidata al sistema del sorteggio incaricato di espellere il correntismo dai luoghi del cd. governo autonomo e che, recidendo il legame di tipo elettivo, indebolirebbe fortemente quella sia pur parziale rappresentatività dell’ordine giudiziario che al Csm è stata riconosciuta – v. Corte cost. n. 142 del 1973 –.

Trovo molto convincenti le parole pronunciate ieri della prof.ssa Biondi, secondo cui, a meno di non mettere mano a riforme costituzionali, deve prendersi atto che il testo della Carta parla, senza possibilità di spazi interpretativi, di componenti eletti. 

Ma il tema del sorteggio non è certo accantonato, perché è costantemente richiamato da autorevoli protagonisti della discussione pubblica, che lo presentano come l’unico efficace rimedio alla crisi del Csm.

 

3.3. Una terza separazione dovrebbe agire nei rapporti tra magistrati, a cui sarebbe consentito l’esercizio del diritto di associazione soltanto per discutere di questioni sindacali.

 

4. Vari dispostivi di separazione che finirebbero col delineare uno scenario di separatezza del magistrato. 

 

Un giudice isolato anche di fronte alle azioni di responsabilità civile se cadesse, col voto referendario, l’attuale regime di responsabilità indiretta, ed esposto al pericolo di un uso indebito dell’azione civile, come strumento di pressione sul giudizio

Servirebbe tutto questo a centrare l’obiettivo di una giustizia più efficiente e più celere?

La domanda è semplice e non voglio nemmeno richiamare quanto sarebbe eccentrico nel panorama europeo il regime di responsabilità che si vorrebbe introdurre.

Un magistrato indotto dal timore di essere sovraesposto alle pretese risarcitorie delle parti non sarebbe più veloce nella decisione, non sarebbe maggiormente pronto a recepire istanze di giustizia quando sarebbe più comodo rigettarle, non sarebbe più sicuro nella gestione del processo.

Si potrà obiettare: sarebbe in ogni caso più attento.

Convengo sull’attenzione, ma sarebbe un’attenzione tutta rivolta a mettersi quanto più possibile al riparo dalle future e prevedibili istanze risarcitorie, e non concentrata sulle ragioni di una decisione più giusta e più rapida. 

Non è allora un’esagerazione retorica paventare che un giudice timoroso e preoccupato di difendere se stesso e la sua tasca non sarebbe in grado di assicurare quella maggiore efficienza del sistema e dei processi a cui tutti guardiamo speranzosi.

 

5. A me non pare che in tal modo si risolverebbero i problemi della Giustizia.

 

E manifestare un pensiero critico non significa per nulla rifugiarsi nella consolatoria negazione, a dir poco ingenua, dei problemi, quanto confrontarsi con la loro complessità.

È stato detto qualche giorno fa da un ex vice-presidente del Csm che i problemi della giustizia e della magistratura sono talmente gravi che occorre intervenire con “l’accetta, per tagliare il nodo gordiano”, dove l’accetta è data dai quesiti referendari. 

Ecco, questo, a mio giudizio, è un esempio tra i tanti di un approccio non condivisibile, del pensiero semplificante – e rassicurante –, che propone soluzioni semplici e immediate che eludono e non riducono la complessità dei problemi

 

6. La complessità invece va fronteggiata con riforme oculate e coraggiose. 

Di riforme sulla giustizia si parla pressoché in ogni legislatura. 

Questa volta, però, va colta la particolarità della stagione, per una pluralità di fattori.

Riforme che riuscissero a recuperare a maggiore efficienza il servizio giustizia avrebbero un ulteriore effetto benefico, agevolando il recupero di tensione etica nei magistrati, come necessaria risposta alla crisi di credibilità della magistratura.

Se è vero che neghittosità e cadute deontologiche allignano più facilmente in sistemi scarsamente efficienti, c’è da sperare che il miglioramento di efficienza concorrerà a rafforzare l’attenzione collettiva dei magistrati sui doveri del ruolo.

Ancora, un servizio giustizia più efficiente, capace di assicurare risposte ragionevolmente tempestive alle domande di giustizia, produrrebbe minore insoddisfazione non solo nelle parti che bussano alle porte dei tribunali, questo è ovvio ed è il dato principale, ma anche negli operatori che rendono quel servizio.

Sarebbe un efficace modo per contrastare il carrierismo, il bisogno di gratificazioni professionali nei riconoscimenti di una carriera burocraticamente intesa. 

Ma non basta.

Queste sono le riforme del tempo della più grande crisi economico-sociale da molti anni a questa parte. 

Sono le riforme della ripresa dagli effetti devastanti della pandemia, che hanno prodotto povertà e diseguaglianze sociali, alla cui realizzazione ed esecuzione è condizionato l’accesso ai fondi europei nel loro complesso 

Oggi è dunque il tempo della responsabilità di fronte all’intera comunità, nazionale ed europea. 

E lo è anche per coloro che, magistrati e non solo, saranno chiamati a darne attuazione. 

 

7. Un atteggiamento responsabile non equivale ad acritica adesione ad ogni proposta che il Governo e il Parlamento stanno elaborando.

7.1. Ci sono aspetti dei disegni di riforma che suscitano perplessità – mi riferisco, ma solo come uno dei possibili esempi, alla fisionomia, per quel che si sa, della prescrizione processuale –, su cui occorrerà discutere.

Mi auguro che una innovazione così importante sarà valutata ed approfondita anzitutto in diretto e concreto riferimento alle condizioni organizzative degli uffici giudiziari, delle Corti di appello. 

Molte Corti territoriali versano in sofferenza organizzativa. 

Bisogna chiedersi se saranno capaci di rispettare la stringente tempistica processuale e bisogna interrogarsi sulla comprensibilità sociale di una eventuale risposta di improcedibilità con vittime che avvertano ancora forte la ferita recata dal reato. 

Reato che la prescrizione non ha estinto, che magari è stato commesso non molto tempo prima, il cui ricordo sociale ben può essere ancora vivido e che potrebbe ancora essere ricondotto nell’area dell’obbligatorietà dell’azione penale.

 

7.2. Ci sono poi proposte mancate.

Il meccanismo di archiviazione meritata, che avrebbe potuto concorrere, con l’irrobustimento della messa alla prova e dell’archiviazione per particolare tenuità del fatto, ad un serio sfoltimento del carico giudiziario pare non essere tra gli emendamenti approvati dal Consiglio dei Ministri. 

Mancano anche alcuni accorgimenti che avrebbero rafforzato i riti premiali e si è rinunciato ad una rivisitazione della struttura dell’appello. 

7.3. Ci sono infine proposte – e penso soprattutto alla giustizia civile – che vanno arricchite nel percorso parlamentare per essere realmente idonee a realizzare l’ambiziosissimo obiettivo della riduzione dei tempi dei processi del 40%.

 

8. Sono spunti critici che sollevo a titolo personale perché ovviamente l’ANM non ha ancora avuto modo di pronunciarsi sulle scelte del Governo, dato che si tratta di novità di appena qualche giorno fa.

L’ANM interverrà, forte dell’approfondimento delle sue Commissioni di studio, nel prossimo futuro e dirà meglio e di più, correggendo se del caso queste mie appena abbozzate considerazioni.

Quel che è certo è che lo farà con piena disposizione al confronto costruttivo, nella consapevolezza che nessuno può presumere di avere la ricetta magica; e che occorre affidarsi, in tempi di così forte incertezza, alle potenzialità dell’agire democratico, all’interazione che valorizzi la cooperazione, aperta e trasparente, di tutti i soggetti che per esperienza e competenza possono contribuire alle migliori soluzioni.

Solo così, ritengo, si potrà fare qualche passo nella giusta direzione.