Intervento di Denis Salas

Magistrato francese, saggista, Presidente dell’Associazione francese per la Storia della Giustizia

Cos’è il populismo? Generalmente, si tende a ricondurre il fenomeno a tre categorie: il popolo “puro”, l’élite corrotta e la volontà generale – vale a dire la “verità annunciata”, la “verità assoluta” della democrazia.

 In un mio saggio[1] avevo definito il populismo penale come una politica volontariamente repressiva, sostenuta da un popolo vittimizzato e impaurito. A diversi anni di distanza, posso constatare non solo come questa analisi trovi conferma, ma come si assista a un’espansione inedita della sfera dei populismi. Oltre a un populismo di estrema sinistra, che prende di mira chi sta in alto, l’élite, ne abbiamo uno di estrema destra, che colpisce gli altri, ossia chi sta dall’altra parte della frontiera. Mentre l’onda populista si solleva un po’ dappertutto, sottoscrivo totalmente la definizione di populismo penale formulata da Luigi Ferrajoli. Stiamo assistendo – nel mondo intero - a un incremento della cultura, dei movimenti e dei regimi populisti, spesso denominati “democrazie illiberali” o “regimi autoritari” (l’Ungheria di Orbán, la Polonia di Kaschinski, la Turchia di Erdoğan, etc.), dove a frammenti di libertà espressa fanno riscontro detenzioni preventive, processi politici e una “giustizia di eccezione”.

Vorrei sottolineare un aspetto epistemologico: non stiamo assistendo a una crisi della democrazia elettorale, ma della democrazia liberale, cioè a una distorsione - che porta alla frattura – interna al rapporto tra democrazia e liberalismo. Da poco è stato pubblicato, negli Stati Uniti, un libro di Yasha Mounk[2] che tratta proprio della dissociazione tra democrazia elettorale e democrazia liberale. Nei diversi Paesi interessati da questa frattura, sono i contropoteri a essere colpiti, quelli che Pierre Rosanvallon, in Francia, chiama «contro-democrazia»: i sindacati, la stampa e i giudici.

In questo intervento, mi soffermerò su tre aspetti: l’avanzata del populismo penale a livello globale, il suo insaziabile bisogno di fabbricare nemici e, in terzo luogo, il ruolo che può giocare il potere giurisdizionale.

 

a)Il discorso populista e i regimi populisti

A partire dagli anni 2000, la cultura populista si diffonde a macchia d’olio, trovando spazio in seno ai partiti politici. Con Berlusconi, gli italiani hanno conosciuto il tele-populismo, mentre in Francia abbiamo sperimentato il sarkozismo. Tuttavia, ciò che più mi colpisce oggi è l’importanza dei network sociali e digitali nell’emergere di questo processo. Le reti – internet in particolare – sono diventate il campo di battaglia per la conquista dell’opinione, i “parlamenti selvaggi” del populismo, dove chiunque può direttamente interpellare i dirigenti e, viceversa, questi ultimi possono rivolgersi ai loro elettori senza regole né mediazioni. “Non detestate i media: i media siete voi”: tale è il messaggio costante del populismo in queste democrazie de-istituzionalizzate. Donald Trump si rivolge di continuo via Twitter a 53 milioni di abbonati, dicendo loro «I’m Your voice»: un approccio diretto, che cortocircuita non solo i media, ma anche la democrazia, quando Youtube, Facebook o Twitter funzionano come piattaforme “di interpellanza”. Questo mi sembra un punto importante, sostenuto e sviluppato significativamente dal populismo politico e dalla sua retorica. Trovo che l’aspetto più grave, nell’attuale affermarsi dei regimi populisti, consista nel fatto che tutti questi dittatori e dirigenti sono eletti democraticamente. In Europa occidentale, l’Italia - Paese fondatore dell’Ue - è un esempio significativo. Rispetto al mio contesto nazionale, resto sempre colpito dal ruolo che, in Italia, ha la Costituzione antifascista del 1948: un riferimento assoluto, che in Francia non abbiamo. Noi abbiamo la volontà generale di Rousseau, il primato della loi, mentre voi avete posto la Costituzione al di sopra di tutto. Questa peculiarità mi sembra importantissima, e costituisce un potente bastione contro il populismo che il Paese sta vivendo. In Italia, in Austria, ma anche in Svezia - mentre in Francia Marine Le Pen accede al secondo turno delle presidenziali del 2017, bussando anche lei alle porte del potere -, l’ascesa di coalizioni e regimi populisti che minacciano la democrazia liberale è una realtà. Il leader populista dice “sono eletto dal popolo, ciò che voglio è ciò che anche il popolo vuole; pertanto, nulla può impedirmi di realizzare la sua volontà”.

Per noi magistrati francesi – come, immagino, anche per voi - è doloroso vedere i Paesi dell’Est europeo scivolare in forme di democrazia illiberale. In Romania, Ungheria, Polonia e Russia ho lavorato a più riprese, partecipando a specifici programmi di formazione per lo sviluppo degli acquis democratici. In proposito, citerò un aneddoto. Ero a Mosca per tenere un seminario di due giorni dedicato all’indipendenza dei magistrati. Constatavo come i giudici russi fossero molto competenti riguardo alla portata e alla comprensione della lettera della Costituzione russa, impeccabile nel disciplinare l’indipendenza della giustizia. Tuttavia, il secondo giorno riservato al seminario, un poliziotto entrò nell’aula e tutti i giudici furono convocati davanti alla Procura generale. Il seminario si interruppe istantaneamente, e in via definitiva. Nonostante quell’imprevisto mi avesse lasciato il tempo di visitare la città, questo “piccolo” episodio, peraltro assai significativo, mi ha fatto toccare con mano lo scarto esistente tra l’indipendenza affermata nella lettera della legge (la Costituzione) e lo spazio ad essa riservato nella testa dei magistrati, nella loro cultura: quello di un’indipendenza manifestamente non acquisita, dove le abitudini di sottomissione erano rimaste frequenti come, del resto – possiamo constatarlo con rammarico – sono tuttora. Il nostro lavoro deve proseguire!

 A Est il discorso populista è molto forte e Viktor Orbán ha da poco definito la Corte costituzionale una «corte aristocratica», dando prova di quanto tale discorso sia ufficializzato. In proposito come non evocare la Turchia, eterogenea e pluralista, ma attualmente vittima della dittatura di Erdoğan, che ha disposto l’incarcerazione di oltre 4000 magistrati dopo il colpo di Stato del 2016? Mi associo vivamente all’omaggio che avete reso a Murat Arslan, in carcere nel suo Paese dall’ottobre dello stesso anno.

In Europa orientale si impongono nazionalismi eurofobi e poteri punitivi che si rivolgono a una società minacciata dalla presenza migratoria. Di fronte a una simile regressione democratica, bisogna rompere il silenzio, e questo congresso ne è una prova tangibile: dobbiamo far sentire la nostra voce di protesta in modo che le donne e gli uomini che sono sprofondati nella notte totalitaria ci sentano dal fondo delle loro celle. Perché, con loro, la democrazia scompare dall’Europa, l’indipendenza dei magistrati si sgretola e gli eletti spazzano via, a colpi di leggi votate dalla propria maggioranza, i diritti umani.

 

b) Il bisogno di nemici

 Questa mi sembra una caratteristica molto marcata negli attuali regimi populisti. Tutti lo avete richiamato, a iniziare da Ferrajoli nella sua definizione: la paura è un elemento costitutivo di questi regimi. Quando scrissi i miei primi lavori sul populismo penale, avevo constatato come il “pericolo”, il “nemico” fosse ravvisato nel plurirecidivo; oggi penso che “nemico” sia, piuttosto, l’immigrato, lo straniero, colui che incarna la paura dell'Altro: per noi, il terrorista, in particolare dopo l’onda d’urto dell’11 settembre e la guerra in Iraq.

È il tempo dei partiti xenofobi, eurofobi, islamofobi (dal greco “phoibos”, “paura”) ed è proprio la paura a sostenere questi partiti, accompagnata dal risentimento per l’identità “minacciata” e, di volta in volta, da una volontà manifesta di reprimere e stigmatizzare una categoria di “indesiderabili”, di “pericolosi”, di “parassiti”. Colpisce, in tutti questi Paesi (in Italia, in Svizzera, in Francia, etc.), lo scarto crescente che esiste tra la percezione della presenza straniera a la sua realtà, sensibilmente più contenuta di quanto si immagini quando si ha paura.

Non riprenderò quanto detto, in questa sede, da Vittorio Manes, che ha efficacemente evidenziato la dimensione fondamentale del discorso, ossia l’atto di stigmatizzare, denunciare, criticare e persino distruggere i fondamenti liberali del diritto penale. In Francia e in Germania si parla di “diritto penale del nemico”, che si oppone al “diritto penale del cittadino”, quello ereditato da Beccaria e dal diritto penale classico di tradizione liberale, che fino ad oggi era rimasto il nostro riferimento. Il passaggio da un diritto di punire liberale a una volontà di punire populista è il cuore della nostra riflessione.

La volontà di produrre un nemico è costitutiva del discorso populista: la fabbricazione del nemico rende credibili le affermazioni in esso contenute e, allo stesso tempo, colloca stabilmente la paura dell’Altro nella mente dei cittadini, risvegliando la loro ansia e il desiderio di risposte immediate, senza trascurare le basi per una eventuale futura rielezione. Anche questo è un elemento essenziale e credo, del resto, senza timore di aberrazioni, nella liceità di un paragone con l’ascesa del totalitarismo negli anni trenta, in quanto il populismo è la matrice del totalitarismo: il regime nazista è effettivamente fondato su un popolo, un Reich, un Führer e proprio questa matrice risulta, oggi, suscettibile di nuove attivazioni.

 

c) Il ruolo del potere giurisdizionale

 Mi riferirò, qui, al caso francese. Di fronte agli attacchi del terrorismo di massa di tipo islamista, il Governo ha deciso di separare la magistratura dalla prevenzione di quella minaccia. Ciò significa che i giudici non hanno più una competenza piena, in quanto garanti delle libertà, nella difesa di fronte al terrorismo e al sospetto di terrorismo: con la legge del 30 ottobre 2017 (n. 1510), tale prerogativa è passata all’amministrazione relativamente all’applicazione di misure cautelari (ad esempio, l’obbligo di dimora) e alle perquisizioni, con la garanzia ex post del controllo di un giudice, peraltro amministrativo. Questa legge è stata avversata da qualche universitario e dal sindacato dei magistrati perché si teme – ma si tratta di una piccola minoranza critica – una sua estensione a categorie ulteriori rispetto ai terroristi, ossia a tutti coloro che potrebbero rientrare fra i nuovi “sospetti”. Dopo aver assistito alla repressione dei manifestanti alla Conferenza Onu sui cambiamenti climatici (COP 21), in tempi recentissimi - con la rivolta dei gilet gialli – un ddl di prossima approvazione (cd. loi “anti-casseurs”, legge “anti-teppisti”), autorizza l’autorità governativa – non l’autorità giudiziaria - a fare arrestare e internare i manifestanti presunti pericolosi: è il fenomeno di un diritto penale senza limiti, nel quale viene a mancare il contropotere del giudice, volto a garantire l’esistenza, nella nostra democrazia, di un diritto penale liberale.

 Inversamente, ritengo anche necessario vegliare affinché il populismo non sia condiviso in maniera estensiva dal corpo dei magistrati. Ho recentemente avuto una discussione con la collega Manuela Cadelli, presidente dell’Associazione dei magistrati belgi e autrice del saggio Radicaliser la justice[3] che tende a collocare la magistratura dalla parte della società, dal lato del “popolo”. Non posso trovarmi pienamente d’accordo, ritenendola un’utopia pericolosa: a partire dal momento in cui si separa la giustizia dallo Stato e la si “rende” al popolo, si creano le condizioni di un populismo giudiziario. È un rischio concreto, che deve essere messo in evidenza. Mi viene, allora, in mente un esempio storico. Nella Grecia antica del V secolo a.C., ai tempi della democrazia ateniese, esisteva il pubblico ministero cittadino. Ogni cittadino poteva rivestire il ruolo di pubblica accusa e denunciare ogni atto ritenuto pericoloso per la vita della collettività, ravvisata nel “demos” (“popolo”). Il rischio che la passione per la denuncia annientasse qualsiasi idea di controllo giurisdizionale rappresentava una patologia della democrazia ateniese, al tempo già satirizzata da Aristofane. Da questo punto di vista - come Livia Holden ha giustamente rilevato, parlando del radicamento culturale della giustizia -, il giudice incarna un’istituzione che presuppone, attraverso la sua stessa attività, l’esistenza di una società pluralista, divisa e contraddittoria; con il dibattito, l’ascolto delle parti, l’expertise dei punti di vista contraddittori e la considerazione della diversità sociale nel suo manifestarsi, egli si trova al centro di quel pluralismo. Il giudice nega, in quanto istituzione, l’esistenza del popolo “unico” ed essenziale declinato dal leader populista; al contrario, egli conduce gli antagonismi verso disaccordi ragionevoli e protegge i diritti delle minoranze contro il potere della maggioranza. Possiamo dire che il giudice occupa una sfera opposta a quella in cui si muove l’essenzialismo del leader populista, il quale non vede davanti a sé altro che il popolo “uno” e “puro”, da difendere e del quale egli è il solo rappresentante. Potrei citare diffusamente le pagine del filosofo Paul Ricoeur, che richiama l’idea secondo cui la democrazia non cerca di occultare le divisioni e i conflitti, ma semplicemente di ritrovare la pace attraverso la risoluzione dei conflitti (culturali, sociali, etc.).

Il giudice mi appare, perciò, come un pilastro della democrazia liberale e un baluardo contro il populismo, che tenta di vampirizzarla. Nondimeno, nel suo ruolo, il giudice è pericoloso per il leader populista, in quanto precisamente rappresenta l’antagonista perfetto in rapporto alla volontà del leader di identificarsi direttamente con il popolo e di negarne il pluralismo. L’antagonismo tra giudice, dalla parte del pluralismo, e leader, assertore dell’unanimismo, può essere estremamente frontale e occorre considerare che chi vuole incarnare il popolo unico facilmente rifiuterà il dialogo con chi, in quanto giudice, agisce nella dimensione di un popolo plurimo.

Per concludere, la democrazia è continuamente indebolita e minacciata dalla semplificazione populista. Ora, la giustizia esprime la pluralità dei “popoli”, delle figure di popolo interessate dalla democrazia: il popolo che incarna la maggioranza, ossia il popolo legiferante; il popolo costituente, che all’origine ha fondato le libertà democratiche attraverso la costituzione; il popolo dei cittadini-parti in causa, che viene a domandare giustizia, assistito da una legittimità forte, “di prossimità”; infine, il popolo-giudice, quello dei giurati popolari nei tribunali e di altre formazioni giudiziarie comparabili.

Penso che il giudice e la giustizia siano direttamente riferibili alla pluralità delle forme di espressione della sovranità popolare e non all’unità, all’unanimità populista di tale espressione. L’esistenza del giudice dimostra, in sé, che il populismo non detiene il monopolio della rappresentazione morale del popolo – anche il magistrato può incarnare questa rappresentazione - e che siamo i garanti di una democrazia liberale da difendere, che ci chiede di essere consapevoli del fatto che essa è minacciata, ormai in permanenza, dalla patologia del “populismo penale”.

 

* Trascrizione e traduzione a cura di Virgilio Mosè Carrara Sutour
[1] D. Salas, La volonté de punir. Essai sur le populisme pénal, Hachette, Parigi, 2005
[2] edizione italiana: Popolo vs democrazia, Feltrinelli, Milano, 2018
[3] Samsa, Bruxelles, 2018