Intervento di Rita Sanlorenzo

 

Nel breve spazio di un intervento non c’è tempo per compiere un’analisi approfondita e completa dei fatti che hanno preceduto questo Congresso. D’altronde abbiamo la relazione di Mariarosaria che condividiamo senza riserve. Possiamo giusto affidarci alla suggestione che offrono alcune parole. A me ne suona in testa una in particolare, da qualche giorno in qua, la parola tradimento. Mi ha colpito che l’abbia usata la Ministra Cartabia nel commentare i fatti di Sta Maria Capua Vetere, quell’”orribile mattanza” dei detenuti da parte di 52 agenti della polizia penitenziaria, affermando che così è stata tradita la Costituzione, il cui art. 27 richiama il “senso di umanità” che deve connotare ogni momento di vita in ogni penitenziario.

L’Esecutivo in relazione agli stessi fatti ha usato lo stesso termine, parlando di “tradimento ennesimo della democrazia”, e richiamando in parallelo il ventennale dei fatti del G8 di Genova, in relazione ai quali nomi come Diaz e Bolzaneto evocano quella “eclisse della democrazia” sulla quale ancora non si è riflettuto abbastanza.

Il tema della violenza di polizia è tema centrale che non si esaurisce con le doverose sospensioni e rimozioni delle cd. mele marce, dei singoli che eccedono, peraltro grazie alla meritoria azione della magistratura; 

ma che deve portare ad un serio ripensamento dei modelli organizzativi delle agenzie di polizia – a partire dall’adozione dei codici identificativi – e del concetto di ordine pubblico che siamo tutti chiamati a costruire a livello culturale, politico, simbolico, ma anche, direi, giudiziario. Lo dico riferendomi a quello che da anni ormai accade nella mia regione di nascita, il Piemonte, in particolare in relazione ai fatti che accadono in Val di Susa, dove non poche sono state e sono le torsioni della repressione penale, peraltro senza che si traggano insegnamenti dalle sconfessioni ricevute dai gradi superiori della giurisdizione.

Tradimento come venir meno al dovere assunto, all’impegno morale o giuridico di fedeltà o di lealtà: tradimento come cambio di percorso rispetto al cammino che ci si è dati. Una scorciatoia, una deviazione, per raggiungere comunque l’obbiettivo che diventa prioritario su tutto.

Lo stesso termine scolpisce, né più né meno, quello che è successo intorno all’Hotel Champagne, con tanto di corredo delle frequentatissime chat di Palamara, così ricercato da tanti che in lui hanno individuato il jolly vincente, l’uomo cui affidare le proprie sorti (elettorali e di carriera) e quelle dei propri amici o congiunti più stretti. Il tradimento questa volta riguarda la stessa prerogativa di indipendenza: lo dice bene il Presidente De Vito, in una recente intervista, all’hotel Champagne aleggiava l’idea di un pm eterodiretto, non così lontano da quello che uscirebbe dalla vittoria del referendum sulla separazione delle carriere. 

Questo, dobbiamo saperlo, ci riguarda, e ci coinvolge tutti: la disponibilità all’accordo sotterraneo con la politica fuori dalla sede istituzionale è la caduta agli inferi, la compromissione senza rimedio della indipendenza della giurisdizione, su cui s’allunga l’incubo della perdita della credibilità stessa della funzione e della impossibilità della sua difesa agli occhi del cittadino.

Ci sono grandi equivoci, sicuramente in parte creati e cavalcati ad arte, nella narrazione di questa triste ondata di scandalo che ha travolto la magistratura ed il suo autogoverno: le polemiche contro il correntismo trascurano di considerare il fatto nuovo e qualificante, in negativo, delle vicende che sono emerse in questi mesi. 

La magistratura ha subito, per dirla con Gustavo Zagrebelsky quella trasformazione oligarchica in un’accezione però tutta contemporanea, che non riconosce competenze o specificità, men che meno meriti, ma piuttosto distingue, tra chi appartiene e chi non appartiene a un qualche "giro" o cerchia di potere.

Nei "giri" ci si scambia protezione e favori con fedeltà e servizi. Lo Stato si trasforma in bottino su cui mettere le mani, per dare e per avere. Catene verticali di potere, quasi sempre invisibili e talora segrete, legano tra loro uomini della politica, delle burocrazie, della magistratura, delle professioni, dell’informazione, 

attratti negli stessi mulinelli del potere, corruttivi di ruoli, competenze, responsabilità.

E l’immagine coniata da Zagrebelsky, quella del “giro” di potere, mi sembra particolarmente calzante rispetto al quadro che è emerso dai successivi accertamenti: un fitto reticolo di contatti, abboccamenti, nella ricerca incessante dello scambio più vantaggioso per tutti. Lontani da ogni trasparente appartenenza, piuttosto occultati sotto il riparo del legame personale, costruito più sui campi da calcetto che nelle assemblee dell’associazione 

Lo scambio: che nel caso specifico, nell’incontro allo Champagne, era di natura affatto particolare: qui era l’indagato che pretendeva di scegliere il proprio inquirente. 

Qui era la svendita finale di ciò che appartiene a tutti, ed alla cui difesa siamo noi magistrati chiamati prima di tutti gli altri: la nostra indipendenza, per essere noi soggetti soltanto alla legge.

Il salto di qualità mi pare evidente: dal malcostume della raccomandazione richiesta al collega, si passa alla compromissione della funzione, della sua messa a disposizione in favore dei tuoi danti causa, nel cui “giro” sei entrato a far parte, nella ricerca di quel potere che solo sembra rappresentare l’obbiettivo da raggiungere.

Questo tradimento, rendiamoci conto, ci ha ferito tutti, ci ha tramortiti, ci ha svelato le nostre fragilità e le nostre incapacità di guardarci dentro. Anche noi, di Md, che abbiamo sempre rivendicato una maggiore profondità di sguardo, perché arricchito da quel punto di vista esterno necessario per evitare l’insterilimento dovuto alla chiusura corporativa, abbiamo dovuto ammettere che non avevamo saputo non dico opporci, ma nemmeno riconoscere la mutazione che era in corso. Anzi, a quei “giri” non disdegnavano di far parte alcuni di noi, con maggiore o minore compromissione, non serve stilare elenchi, e graduatorie, ma improvvisamente abbiamo dovuto aprire gli occhi davanti ad una realtà da incubo: il virus si era inoculato in un corpo che credeva di avere sviluppato ampie difese immunitarie.

Come opporci qui e adesso alla deriva? La magistratura possiede gli anticorpi per reagire, per recuperare quella fiducia che sembra essere venuta meno? Ha ragione Mariarosaria, le nostre preoccupazioni non devono rivolgersi tanto alle nostre prerogative, al nostro status garantito dalla Costituzione: la vera posta in gioco di questa crisi, è diventata la giurisdizione. Per questo il tradimento che si è compiuto si è rivelato tanto più drammatico, forse esiziale. Ma questo Congresso deve mettere al centro, dopo l’analisi, le risposte che devono costituire la linea d’azione di qui in avanti.

La prima di queste risposte deve stare nella presa di distanza da quella diffusa, avvilente compromissione con potentati più o meno radicati, più o meno localizzati geograficamente, che ha costituito, e costituisce la maledizione non solo della magistratura ma, come insegna Zagrebelsky, dell’intera democrazia italiana. 

E’ d’altronde questo l’oggetto della riflessione più complessiva di questo Congresso, la questione della magistratura è in fondo questione che appartiene alla più vasta questione democratica, 

e su questo non bisogna fare sconti, a nessuno, a partire dal proprio interno. Il significato della presenza dei gruppi, la loro essenzialità, si giustifica solo se il collettivo svolge il suo ruolo critico anche nei confronti dei propri appartenenti, ne discute pubblicamente gli atteggiamenti e chiede conto. 

Certo la questione è e resta quella del rapporto con il potere: Io credo che questo un po’ il senso della provocazione di Valerio e Marco: facciamo del nostro essere fuori dei posti di potere un vessillo per un vero rilancio etico: io per prima sottoscrivo questo obbiettivo, ma credo che non serva a questo fine condannarsi all’irrilevanza. 

Se da un serio rilancio etico bisogna ripartire, bisogna però che siamo consapevoli che più che di parole d’ordine, che però stentano ad affermarsi, quello di cui hanno bisogno i magistrati, ed in particolare i giovani, è di esempi concreti e coerenti, negli uffici come nell’associazionismo. 

Ribadiamo qui quello che sembra si sia dimenticato da tanti, da troppi, occupati più a mercanteggiare il proprio percorso professionale, che a riflettere sul dovere che si accompagna alla funzione e che si traduce nella necessaria distanza dagli interessi che vengono coinvolti nel processo. 

Noi dobbiamo contrastare il carrierismo e lo dobbiamo fare con la prospettazione di regole nuove che possono andare dalla rotazione dei semidirettivi al ritorno ad una effettiva temporaneità, senza tralasciare l’intervento sulle prerogative dei capi, la riduzione della loro discrezionalità a partire dalla assegnazione degli affari.

Sono partita dalla parola tradimento, ora sento necessario chiudere, guardando al futuro, con un richiamo alla parola fedeltà. Sono contenta che anche il Direttore Tarquinio l’abbia indicata nel suo intervento come una delle chiavi per interpretare il cambiamento che si invoca.

Fedeltà all’ispirazione più autentica che ci ha spinto a scegliere questo tipo di impegno professionale, fedeltà al modello costituzionale che i padri costituenti hanno immaginato e tradotto in regole chiare, coerenti, patrimonio per tutta la democrazia. 

Fedeltà al dovere di offrire garanzie ai più deboli, anche a chi è privato della libertà personale (non dimentichiamo che l’emersione dei fatti di Sta Maria Capua Vetere è dovuta alla iniziativa di magistrati, a partire da quelli di sorveglianza, autonomi e indipendenti da pressioni e calcoli di convenienza; il bel documento di Area Liguria ci ricorda come un’accusa indipendente abbia permesso di conoscere almeno in parte i fatti di Genova e di vedere riconosciute le responsabilità).

Fedeli a noi stessi, alle ragioni che ci hanno fatto scegliere di essere Md senza peraltro mai precludere la ricerca di altre e diverse forme di aggregazione e collaborazione per la costruzione di un fronte unitario in grado di rappresentare le varie anime della magistratura progressista. 

La relazione ripercorre con precisione e puntualità i passaggi che ci hanno portato alla necessità di formalizzare una decisione che sta già nei fatti: sta, prima di tutto, nelle scelte che altri, altri di noi, hanno fatto ritenendo che quello che avevano preso da Md, a partire dal consenso elettorale ricevuto, non costituisse ragione sufficiente per restare. 

Io credo che spetterà alla intelligenza politica di Area e di Md, trovare e sperimentare geometrie variabili per dar corso ad un nuovo rapporto. Le scelte che di volta in volta dovranno farsi dipenderanno da tanti fattori, le situazioni sui territori, i sistemi elettorali, le diverse istanze di rappresentanza.

Ma questo nuovo rapporto potrà fondarsi solo su quello che fin qui malauguratamente è stato fatto mancare, un reciproco, leale riconoscimento, attraverso il quale sviluppare nuove sinergie e una fondamentale alleanza per ricostruire insieme un quadro che si è incrinato e che sembra dover andare in pezzi da un momento all’altro. 

Ma questa è la fine comunque da scongiurare. Quello che ora è urgente compiere è un ragionamento politico allargato a chi persegue lo stesso obbiettivo. Non è troppo tardi per riprendere un cammino necessario, che sono sicura la nuova Md saprà percorrere con coerenza e lealtà.

Ma non posso concludere senza il mio più sentito ringraziamento – che so condiviso da tutto il Congresso - alla dirigenza che lascia: Mariarosaria e Riccardo, prima di tutti gli altri e con tutti gli altri, sono riusciti nella grande impresa, quella che sembrava ormai inarrivabile: quella di tenere il gruppo saldamente ancorato ai suoi valori ed alla sua stessa ragione di esistere. Così offrendo a tutti noi, dentro Magistratura democratica, l’opportunità per cui impegnarci, ossia quella di continuare ad esserci.