Introduzione di Franco Ippolito

presidente Fondazione Lelio e Lisli Basso

1. Dei populismi che sfigurano la democrazia si sono occupati ieri molti interventi, a cominciare dall’approfondita relazione di Mariarosaria Guglielmi e dalla specifica trattazione di Nello Rossi sino allo splendido intervento di Luigi Ferrajoli.

Il populismo, come strategia politica e stile di comunicazione per conquistare consenso elettorale, non è novità di questi anni; è stato praticato da vari protagonisti della più recente vicenda politica italiana, pur senza dichiararne esplicitamente l’uso. Ciò che rende diverso l’attuale populismo di governo è la reiterata orgogliosa rivendicazione, che si alimenta di un orientamento maggioritario di cittadini-elettori che – nell’epoca della globalizzazione e dell’economia finanziaria, che hanno accresciuto a dismisura le disuguaglianze, ridotto drasticamente le possibilità di lavoro e peggiorato le condizioni di sfruttamento – sono stati o si sono sentiti abbandonati e non più rappresentati dai partiti che hanno gestito il potere politico nazionale nell’ultimo trentennio, segnato dal dominio del neoliberismo e dalla sostanziale rinuncia della politica a contrastare i poteri e gli interessi economici privati.

Il populismo di governo intercetta una molteplicità di sentimenti: di contrapposizione verso chiunque sia percepito come élite (politica, intellettuale, scientifica…); di sfiducia verso le istituzioni della rappresentanza politica, avvertite come oligarchiche; di ostilità verso i partiti, quelli di sinistra in particolare, ritenuti (a ragione o a torto) non più rappresentativi degli interessi e dei valori espressi dalla democrazia fondata sul lavoro, di cui ci ha parlato Piero Curzio.

Poiché siamo convinti che non esistono regimi migliori della democrazia, dobbiamo ritenere che questa “rivolta contro le élites” da parte dei tanti che si astengono dal voto o scelgono movimenti e partiti populisti, sia l’esito di responsabilità, oggettive e/o soggettive, delle precedenti classi dirigenti, che si sono dimostrate incapaci di cogliere le sofferenze che percorrevano la società per effetto di politiche dimentiche delle promesse e degli impegni su cui poggia il sistema democratico costituzionale, che vede il proprio pilastro nell’art. 3, ossia nei principi di uguaglianza e di pari dignità sociale delle persone.

2. In questo quadro generale vogliamo analizzare, in questa tavola rotonda con ospiti italiani e stranieri, la particolare forma di populismo, che va sotto il nome di populismo penale.

Possiamo prendere l’avvio dall’efficace definizione data, con la consueta precisione concettuale e linguistica, da Luigi Ferrajoli, che cosi denomina «qualunque strategia in tema di sicurezza diretta a ottenere demagogicamente il consenso popolare rispondendo alla paura generata dalla criminalità di strada, con un uso congiunturale del diritto penale tanto duramente repressivo e antigarantista quanto inefficace rispetto alle dichiarate finalità di prevenzione».

Ma consentitemi una citazione, per me e per questa sede congressuale di Md, meno scontata, quella di Papa Bergoglio nel discorso fatto alla delegazione dell'Associazione internazionale di diritto penale (23 ottobre 2014).

Proprio all’inizio del suo intervento, il Papa affronta espressamente il tema del populismo penale, evidenziando che «negli ultimi decenni si è diffusa la convinzione che attraverso la pena pubblica si possano risolvere i più disparati problemi sociali, come se per le più diverse malattie ci venisse raccomandata la medesima medicina. Non si tratta di fiducia in qualche funzione sociale tradizionalmente attribuita alla pena pubblica, quanto piuttosto della credenza che mediante tale pena si possano ottenere quei benefici che richiederebbero l’implementazione di un altro tipo di politica sociale, economica e di inclusione sociale». E continua, affermando che: «Non si cercano soltanto capri espiatori che paghino con la loro libertà e con la loro vita per tutti i mali sociali, come era tipico nelle società primitive, ma oltre a ciò talvolta c’è la tendenza a costruire deliberatamente dei nemici: figure stereotipate, che concentrano in sé stesse tutte le caratteristiche che la società percepisce o interpreta come minacciose. I meccanismi di formazione di queste immagini sono i medesimi che, a suo tempo, permisero l’espansione delle idee razziste».

Sia Ferrajoli che Bergoglio concentrano, come è giusto, la loro analisi soprattutto sulle responsabilità di chi elabora e utilizza demagogicamente il diritto penale per rispondere a paure collettive, senza farsi carico della necessità di politiche sociali, economiche e di inclusione sociale.

L’analisi del populismo penale – come è emerso ieri dagli interventi di Marco Puglia e di Cecilia Pratesi – richiede però un’attenzione anche alla società e alle sue dinamiche, percorse da tendenze collettive, anche indipendenti dagli orientamenti politici di volta in volta maggioritari, che influenzano e condizionano le logiche proprie del diritto, in particolare di quello penale. In proposito è stata rilevata la crescita, negli ultimi decenni, di una intolleranza sociale selettiva verso soggetti “diversi” o verso condotte e comportamenti dissonanti da quelli comunemente accettati, percepiti come pericoli potenziali al modo di vivere della maggioranza; sentimenti e umori facilmente strumentalizzabili da parte di mass-media a fini economici e da parte di attori politici a fini di consenso. Occorre dunque essere avvertiti e consapevoli delle corpose tendenze populiste e punitive che circolano nella società e che creano un terreno favorevole all’uso politico del populismo penale e talora – bisogna riconoscerlo – a cadute sostanzialistiche della giurisdizione penale e al protagonismo demagogico di taluni magistrati nella ricerca di contrapposizione manichea alla classe politica.

3. Non è da oggi che giuristi, avvocati e magistrati criticano l’uso e l’abuso da parte delle diverse maggioranze politiche del diritto penale, utilizzato a scopo simbolico e di rassicurazione sociale, per rispondere (o mostrare di rispondere) nella maniera più semplicistica ed “economica”, a preoccupazioni emergenti dalla società.

Resistere a spinte sociali non è certamente agevole per chi trae legittimazione e potere dal consenso popolare. Un consenso che viene espresso dalle periodiche tornate elettorali, ma che è anche compulsivamente misurato da frequenti sondaggi, sovente commissionati e amplificati dagli stessi mass-media che pure lamentano il corto respiro dei governi e delle maggioranze politiche.

Per varare un serio programma di politiche sociali, economiche e di inclusione sociale – come quello sollecitato dal Papa – occorrono competenza e risorse. Per un intervento demagogico di facciata basta l’incompetenza e una superficiale lettura di una qualche (non imitabile) esperienza straniera.

Per fare un esempio, con riferimento ad una recente proposta di legge, alle legittime e doverose preoccupazioni per il fatto che le organizzazioni criminali usano minori per lo spaccio della droga, si può (e si dovrebbe) rispondere con impegnativi programmi di sostegno educativo e formativo alle famiglie e alla scuola pubblica al fine di aiutarle nel processo di maturazione e sviluppo della personalità dei bambini e dei preadolescenti.

Oppure si può (fare finta di) rispondere con l’abbassamento dell’imputabilità penale a 12 o a 10 anni, prendendo a modello Paesi che non hanno firmato la Convenzione delle Nazioni unite sui diritti dei minori.

La prima opzione esprime un impegno politico serio, che affronta la questione e rispetta i diritti dei minori. La seconda certamente non aumenta minimamente né la prevenzione né la difesa sociale, ma si presenta come risposta semplice e rapida a quella che viene presentata come ennesima emergenza.

È esattamente quanto è già accaduto – per continuare nell’esemplificazione – per la mancata depenalizzazione del reato di immigrazione irregolari, norma tristemente simbolo dell’umiliazione dei migranti, anche se del tutto inutile per contenere i flussi migratori, dannosa per l’efficienza del sistema giudiziario, stigmatizzante e lesiva della dignità della persona umana. È stata una grave scelta del Governo (non l’attuale), che non volle esercitare la delega contro le previsioni della legge-delega di depenalizzzazione (n. 67 del 2014), per timore di opinioni e insulti circolanti nei social-media.

Non diversamente è successo anche per la configurazione della fattispecie di omicidio stradale, che ha insensatamente portato la sanzione carceraria per fatti colposi a livelli delle pene previste per gravi reati dolosi.

È quanto è accaduto, ancora di recente, per i reiterati aumenti di sanzioni per delitti di criminalità organizzata e per reati contro la pubblica amministrazione. Provvedimenti che, per un verso, si dimostrano assolutamente inefficaci a fini di prevenzione e, per altro verso, determinano palesi sproporzioni repressive e stravolgimento di ogni logica di sistema, finendo con il determinare una sorta di insensata parificazione tra mafia e corruzione.

Il sistema giuridico-penale (che va costruito sul principio della extrema ratio) è fatto di equilibrio e di delicate proporzioni. L’irruzione dell’interesse elettorale, con l’occhio alla misura del consenso immediato, determina guasti e disastri normativi, che non sempre possono trovare o trovano rimedio negli interventi della Corte costituzionale.

Ma se il populismo penale è una strategia ricorrente da decenni, oggi va rimarcato un dato nuovo e allarmante. Oltre all’abituale uso simbolico-espressivo del diritto penale per far fronte a emergenze (reali o supposte) al fine di placare l’ansia da percezione di insicurezza collettiva, è in atto una evidente strategia di governo della società a mezzo di repressione penale, finalizzata alla costruzione e al potenziamento del consenso politico, alimentando e strumentalizzando sentimenti e umori diffusi, paure, ostilità, risentimenti, rabbie.

Ho già accennato al contenuto della legge cd. “spazzacorrotti”. La valutazione tecnica e politica del decreto Salvini è stata fatta molto bene da Simone Spina: un decreto criminogeno, che individua l’immigrato irregolare come soggetto pericoloso, potenziale nemico da cui la collettività deve proteggersi. Una normativa che interrompe buone pratiche di accoglienza e integrazione, essenziali per favorire un clima meno ostile ai nuovi arrivati; crea ghetti ingovernabili, determinando una crescente separazione dalla popolazione regolarmente residente; spinge gli immigrati irregolari a rendersi invisibili e “clandestini” e, perciò, impossibilitati a sopravvenire con mezzi leciti.

Da un lato, “la politica della paura” finisce per sostenere l’economia illegale e, dall’altro, accresce quei sentimenti che alimentano la percezione di insicurezza dei residenti, che a sua volta spinge a reclamare nuovi interventi contro “i diversi”, capri espiatori della difficoltà e delle sofferenze sociali prodotte dalla crisi economica e dalle cadute delle speranze in una politica capace di disegnare un futuro migliore.

4. Dobbiamo rassegnarci – si è chiesto Domenico Pulitanò – a considerare, «con malinconico disincanto … i correnti usi populistici della legislazione penale come un prodotto della democrazia, sia pure di una democrazia sfigurata»?

Ritengo che si debba e si possa rispondere negativamente. La democrazia costituzionale non è soltanto investitura dal basso, elezioni e consenso elettorale, è anche garanzia e tutela dei diritti fondamentali, come ci ha insegnato l’art. 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, che dal 1789 fonda la civiltà europea sul principio che non ha costituzione la società in cui non è assicurata la garanzia dei diritti di ogni persona né stabilita la separazione dei poteri.

Certamente non basta solo il diritto a far vivere davvero i diritti. Sono necessari anche la politica e la cultura della società. La ripresa della politica è compito della politica, ma la reazione contro lo smarrimento dei valori di libertà, di emancipazione e di solidarietà, per dare effettività ai principi di uguaglianza attraverso la realizzazione dei diritti (politici, civili e sociali), è compito anche di tutte le componenti sociali e istituzionali, dell’università e dell’avvocatura, delle giurisdizioni e della magistratura, in particolare dei gruppi associativi che sin dal nome si richiamano alla democrazia.

Il demos richiamato dalla ragione sociale Md e di AreaDG è quello della democrazia che mette al centro la pari dignità sociale, l’uguaglianza e i diritti fondamentali e inviolabili di ogni persona umana, la cui effettività è garantita e promossa dall’equilibrio e dalla separazione dei poteri; quella democrazia costituzionale che ha cancellato ogni connotato di assolutezza, anche per quanto concerne la fonte di legittimazione, giacché la sovranità popolare è e va esercitata nella forme e nei limiti della Costituzione. Nello scrivere quell’art. 1 della Carta, i Costituenti avevano ben in mente quella famosa avvertenza di Tocqueville sulla necessità di sottrarre i diritti fondamentali alla possibile tirannia della maggioranza: «Quando sento la mano del potere che mi preme sul collo, poco m'importa di sapere chi è che mi opprime; e non sono maggiormente disposto a chinare la testa sotto il giogo per il solo fatto che questo mi viene porto da milioni di braccia».

Che cosa possono e devono fare i magistrati e che cosa può e deve fare l’associazionismo giudiziario, e Md in particolare, di fronte all’attacco alla dignità della persona, ai diritti fondamentali e ai connotati dello stato costituzionale, a cominciare dalla separazione dei poteri?

I magistrati, nell’esercizio delle loro funzioni, devono – come ci ha ricordato ieri Nello Rossi – assolvere con imparzialità al loro ruolo di garanzia dei diritti e di controllo di liceità di tutti i poteri, pubblici e privati. Pubblici ministeri e giudici devono svolgere il compito loro proprio, applicando le leggi, anche quelle più urticanti, ma soltanto dopo avere, previo esame critico, ritenuto la manifesta infondatezza di eventuali dubbi di costituzionalità o di contrasto con Carte sovranazionali e internazionali, promuovendo tutte le necessarie verifiche da parte della Corte costituzionale e della Corte di giustizia.

Oggi a tutti i giudici ordinari, in qualità anche di giudici “europei”, compete di fare ciò che fecero i giudici italiani tra gli anni ‘50 e ’60 del ‘900, quando presero sul serio la Carta costituzionale della Repubblica, concorrendo a rendere più civile, moderno e giusto il nostro Paese. Prendere sul serio la Costituzione e la Carta dei diritti dell’Unione non significa fare politica. Significa esercitare la giurisdizione, mutatis mutandis, secondo i rigorosi indirizzi che ai giudici della Repubblica assegnò il non dimenticato congresso di Gardone dell’Anm.

Ma l’ambito dell’impegno giurisdizionale va oltre, deve estendersi ai tanti illeciti commessi ai danni degli immigrati, che – quando vivono in questo Paese e negli altri Paesi dell’Unione – devono trovare nella giurisdizione la garanzia dei loro diritti e della loro dignità e la tutela contro maltrattamenti, umiliazioni e sfruttamento. E sono davvero tanti i reati, le illiceità, le violazioni di diritti che vengono commesse ai loro danni: dal lavoro in nero all’intermediazione di caporali, dall’evasione contributiva alle invivibili condizioni di lavoro che violano le più elementari norme di sicurezza e di prevenzione infortunistica.

I magistrati, come cittadini e come giuristi, e Md come gruppo associativo, possono e devono sentirsi oggi più che mai impegnati nel discorso pubblico, raccogliendo le sollecitazioni – venute da organizzazione di cittadinanza consapevole e attiva e, con particolare forza e autorevolezza, da Luigi Ferrajoli – a contribuire a fornire e diffondere i necessari antidoti culturali, con assunzione di posizioni nette e univoche per battere culture, senso comune, credenze e atteggiamenti che evocano la parte buia dell’Europa della prima metà del ‘900, a cominciare dalle tendenze xenofobe e razziste, ricordateci da Gad Lerner. Occorre vincere silenzi e indifferenze, che non sono atteggiamenti neutri, ma costituiscono l’humus per il rafforzamento di sentimenti di ostilità e di esclusione.

Deve scuoterci tutti la frase pronunciata da Liliana Segre in una recente intervista: «Oggi come nel 1938 mi fa paura l’indifferenza! L’indifferenza è stata colpevole allora perché non ci si può difendere da chi volta la faccia dall’altra parte, si cerca di difendersi da chi è violento, ma non da chi fa finta di non vederti e di non vedere. Ed è lo stesso pericolo che c’è anche oggi».

Non un pericoloso estremista, ma un mite uomo di studi giuridici e di filosofia come Norberto Bobbio, teorizzava e praticava, come dovere morale e politico dell’uomo di cultura, tanto più in epoca di crisi e di confusione, l’impegno a schierarsi e ad esercitare lo spirito critico contro il dogmatismo, soprattutto quando è utilizzato dal potere politico, e contro la pseudocultura degli improvvisatori, dei dilettanti, dei propagandisti interessati, ricordandoci che «il silenzio è il custode della nostra sonnolenza spirituale».

5. Qualcuno pessimisticamente sostiene che il lavoro dei giuristi ancora appassionati allo Stato costituzionale di diritto assomiglia oggi a quello dei monaci medievali che, nel chiuso delle biblioteche, conservarono e salvarono il pensiero classico per poterlo consegnare ad un futuro di rinascita e di ripresa.

Ieri Oreste Pollicino e Gad Lerner, da diverse angolazioni professionali e culturali, hanno detto che si può e si deve fare ben altro. È essenziale un impegno civile attivo di tutti, anche dei magistrati, affinché si eviti il contagio delle democrazie illiberali, realizzate in alcuni Paesi dell’Unione europea.

È necessario impegnarsi a portare alla luce, contrastare e vincere, con i mezzi dell’ordinamento e della cultura giuridica, ogni distorsione populista in contrasto con la Costituzione e le Carte dei diritti, così concorrendo, insieme alla parte più consapevole della società civile, a preservare lo stato di diritto e le istituzioni democratiche da ogni forma di autoritarismo.

In un recentissimo libro, appassionante come un romanzo (non a caso intitolato Il romanzo della Costituzione), Giuseppe Cotturri ci ricorda che, per due volte a distanza di 10 anni, la stragrande maggioranza di cittadini ha rifiutato lo stravolgimento della Costituzione repubblicana approvata da due diverse maggioranze parlamentari. È il segno del radicamento popolare della Costituzione antifascista del 1948, quella dell’uguaglianza, della pari dignità, del pluralismo, dell’inclusione.

È quella parte del Paese che Md può e deve aiutare a reagire. La capacità di reazione passa anche per un recupero di fiducia della società nella capacità della giurisdizione di realizzare i compiti che le sono assegnati dalla Costituzione e dall’ordinamento giuridico. Un recupero che richiede da parte dei magistrati la piena consapevolezza del ruolo costituzionale della giurisdizione e la correlata accettazione delle responsabilità che esso comporta, la qualificazione e la competenza tecnica e professionale dei singoli, il perseguimento effettivo della ragionevole durata dei processi, la convinta ricerca d’intesa con l’avvocatura e le associazioni forensi sul rilancio di un servizio giudiziario efficiente e affidabile, ma anche un costume di serietà, sobrietà e razionalità nella partecipazione al dibattito pubblico, tale da far crescere la credibilità dei singoli e dell’intera istituzione. In questo quadro, la partecipazione al dibattito pubblico dell’associazionismo giudiziario e dei singoli magistrati può efficacemente contribuire al recupero di credibilità e di fiducia se, nell’esprimere le proprie ragioni e nel darsi carico delle ragioni degli altri e dell’interesse generale, recano quel contributo di razionalità e di equilibrio che la collettività si aspetta da chi è investito di delicate funzioni istituzionali.

È l’impegno che può e deve proporsi Md per contribuire alla tenuta democratica del Paese e al recupero di cultura e civiltà di cui la società necessita.