Il Dap: una realtà complessa

Carcere

Il Dap: una realtà complessa

di Carlo Renoldi
Consigliere della Corte di Cassazione, già Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria


Il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria è una realtà estremamente complessa, senza eguali rispetto alle altre articolazioni del Ministero della Giustizia: sia per il suo enorme budget, pari a oltre 3 miliardi e 200 milioni di euro, pari a circa metà dell’intero bilancio ministeriale; sia per l’elevato numero di unità di personale, oltre 45.000, cui si aggiungono le circa 56.000 persone oggi detenute; sia per il numero di strutture penitenziarie, poco meno di 200, alcune delle quali, per dimensioni, sono vere e proprie piccole città; sia per la varietà delle interrelazioni con altre amministrazioni, centrali e locali, su temi cruciali per gli equilibri del sistema penitenziario (salute, lavoro, formazione, assistenza sociale); sia per le implicazioni politiche che riguardano il discorso pubblico sulla pena e sul carcere e per un’attenzione mediatica in genere rivolta a cogliere i segnali di pericolo che provengono da una realtà avvertita come minacciosa, quasi mai a tentare un’analisi razionale dei problemi e delle possibili soluzioni, rispetto a cui vi è una coazione a ripetere slogan ideologici e spesso privi di qualunque aggancio con il mondo reale.


È, dunque, evidente che, attesa questa complessità, per poter immaginare una gestione amministrativa in grado di affrontare i tanti problemi accumulatisi nel tempo è necessaria una stabilità nella governance dipartimentale, che tuttavia manca da molto tempo. Negli ultimi 5 anni, infatti, l’Amministrazione penitenziaria ha conosciuto ben 5 capi del Dipartimento, spesso chiamati ad attuare politiche penitenziarie molto diverse. Limitando lo sguardo agli ultimi nove mesi, ovvero alla breve durata della mia esperienza alla direzione del Dipartimento, benché siano state intraprese molte iniziative, non vi sono state, però, le condizioni, di durata e politiche, per avviare i processi di riforma della macchina amministrativa che sarebbero assolutamente necessari per restituire ad essa le condizioni di efficienza indispensabili per affrontare la grande scommessa costituzionale posta dall’articolo 27, terzo comma, della Costituzione.


Partiamo dalle cose fatte, raggruppando gli interventi per le seguenti aree tematiche: edilizia; personale; circuiti e vita detentiva; contatti con altre istituzioni e con la società civile.


Sul versante infrastrutturale, va ricordata la introduzione, promossa dal DAP, di una norma contenuta nel cd. decreto aiuti, che prevede procedure semplificate per la realizzazione di nuovi istituti e di nuovi padiglioni, la cui concreta realizzazione, nel passato, è durata, in media, tra gli 8 e i 10 anni. Occorre poi segnalare, accanto alla prosecuzione della progettazione per i lavori di esecuzione di 8 padiglioni finanziati con i fondi complementari del PNNR, la prosecuzione delle attività di ristrutturazione edilizia di molti istituti e di adeguamento delle camere di pernottamento alle indicazioni del regolamento di esecuzione del 2000, per cui sono stati stanziati circa 82 milioni di euro. In accordo con la DGSIA è stato dato impulso alle attività dirette al cablaggio delle strutture penitenziarie, necessarie per l’attivazione di una serie di servizi che presuppongono standard tecnologici adeguati e per superare il ricorso al cartaceo (si pensi, tra l’altro, all’accesso telematico al sopravvitto); così come nuovo impulso è stato dato alla implementazione della videosorveglianza, strumento imprescindibile per garantire la sicurezza del personale e delle persone detenute. Accanto agli interventi sulle strutture detentive, vanno poi sottolineati quelli sulle caserme, destinate ad accogliere il personale di polizia penitenziaria, per le quali sono stati stanziati oltre 23 milioni di euro, al fine di garantire condizioni adeguate in particolare ai più giovani, che come primo incarico vengono spesso destinati a strutture del nord Italia (dove il costo degli affitti è proibitivo) e che molte volte si trovano in contesti poco accoglienti, con l’effetto di minarne la fiducia nell’Amministrazione e la motivazione verso un lavoro duro e scarsamente riconosciuto.

Quanto al personale, sono state concluse le procedure per l’assunzione, dopo 25 anni, di 57 nuovi dirigenti penitenziari, circa 200 funzionari giuridico-pedagogici (educatori), 120 funzionari contabili (ragionieri), migliaia di unità di polizia penitenziaria. Ma soprattutto sono state adottate una serie di misure volte a migliorare la condizione di benessere organizzativo, come la circolare sui “Percorsi di sostegno al personale penitenziario”; e sul versante della formazione è stato avviato un progetto, da sempre invocato dai sindacati e mai realizzato, per la gestione degli eventi critici (in particolare le aggressioni da parte di detenuti violenti).


Sul versante della vita detentiva, accanto alla circolare sulla media sicurezza, attesa da alcuni anni, e alla circolare su “colloqui, videochiamate e telefonate”, sono state elaborate delle linee guida per la prevenzione dei suicidi (la cui concreta implementazione è stata ostacolata dalla cronica latitanza delle Asl, tenute per legge a garantire il sostegno psicologico e psichiatrico delle persone detenute) ed è stato dato corso ad alcune proposte della Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario (presieduta dal prof. Ruotolo) in materia di lavoro, formazione, benessere negli spazi detentivi, con una serie di iniziative molto concrete dalle notevoli potenzialità (dalla sperimentazione per la sostituzione, con le piastre a induzione, dei fornellini a gas, fonte di gravi rischi per la salute di personale e detenuti, al censimento di tutti gli spazi esistenti negli istituti per l’allestimento di lavorazioni e opifici). Quanto, poi, ai contatti con la società civile e altre istituzioni, sono stati stipulati moltissimi protocolli in materia di teatro, lavorazioni intramurarie, attività sportive, assistenza religiosa, cura del verde pubblico. E soprattutto il Protocollo contenente le “Linee d’indirizzo per la realizzazione di un sistema integrato di interventi sociali per il reinserimento delle persone detenute” stipulato con la Conferenza delle Regioni e delle Province autonome presieduta da Massimiliano Fedriga.


Ma, ovviamente, sono tantissime le iniziative che, per il poco tempo, non è stato possibile avviare; iniziative che attengono, soprattutto, al piano di una profonda riorganizzazione delle strutture amministrative e dei loro processi operativi, senza la quale ogni intervento sulla trama normativa dell’ordinamento penitenziario rischia di risolversi in un’operazione sterile, priva di reale impatto sulla concreta realtà carceraria.


Il nostro ordinamento penitenziario, infatti, è avanzatissimo e riconosce alle persone detenute un complesso di posizioni giuridiche soggettive, che ricevono tutela giurisdizionale, rafforzata dalla possibilità di azionare, in caso di inerzia dell’amministrazione soccombente, finanche una procedura di ottemperanza. E tuttavia, al di là dell’amara considerazione per cui l’espansione giurisprudenziale delle posizioni giustiziabili ha finito, paradossalmente, per dimidiare le possibilità di tutela, finendo per ingolfare gli uffici e i tribunali di sorveglianza e rendendo la risposta spesso tardiva e inefficace, vi è da riconoscere che, molte volte, i bisogni delle persone detenute si scontrano con la estrema difficoltà dell’amministrazione di attivarsi per un loro effettivo soddisfacimento, sicché le relative disposizioni normative restano, in larga misura, inattuate.

Questa incapacità della macchina amministrativa è, a sua volta, il portato di numerosi fattori, rispetto ai quali occorre ragionare, appunto, in termini di complessiva riorganizzazione del dipartimento, a livello centrale e periferico, anche e soprattutto per quanto riguarda il personale, senza il quale, ovviamente, nessun disegno riformatore può essere realmente perseguito.


Fondamentale, al riguardo, è la necessità di una riforma della dirigenza penitenziaria, generale e non, attraverso la previsione, per la prima, di incarichi “a tempo” e legati, quanto alla possibilità di conferma, al raggiungimento degli obiettivi assegnati; e attraverso la ridefinizione del circuito dei provveditorati, strutture territoriali dell’Amministrazione la cui efficienza è la precondizione perché il sistema penitenziario possa garantire livelli accettabili di funzionalità. Nel 2015, per esigenze di contenimento della spesa, si è proceduto al drastico taglio dei posti di funzione della dirigenza generale, con l’accorpamento di alcuni provveditorati regionali, che oggi, a meno di dieci anni da quell’intervento, si è dimostrato errato. Esso ha, infatti, garantito un modestissimo risparmio in termini economici, ma ha reso sostanzialmente ingestibili alcune articolazioni provveditoriali a base pluriregionale, alle prese con territori molto diversi per tessuto economico-sociale e, soprattutto, con interlocutori istituzionali differenti: un problema, questo, molto grave, se si considera che molte delle competenze in materie rilevanti per il “trattamento rieducativo” dei detenuti (dal lavoro, alla sanità, all’assistenza sociale, alla formazione professionale) sono ormai di competenza regionale. E che la stessa realizzazione di nuovi istituti penitenziari, peraltro di competenza di un ministero diverso da quello in cui è incardinata l’amministrazione penitenziaria (con tutte le complicazioni operative che questo comporta), passa, nei fatti, attraverso l’attività di impulso che proviene dagli enti locali, spesso interessati alla realizzazione di un carcere nei loro territori in ragione delle evidenti ricadute a livello economico e occupazionale. Quanto, poi, alla dirigenza non generale, appare imprescindibile la previsione di un percorso di carriera più articolato dell’attuale, con la (re)istituzione della dirigenza superiore, in grado di incentivare, anche economicamente, l’assunzione degli incarichi più impegnativi, in particolare per gli istituti penitenziari più grandi, sedi di “incarico superiore”, rispetto ai quali spesso si registra l’assenza di vocazioni del personale più preparato. Ma centrale è, altresì, una modifica dell’assetto ordinamentale delle cd. funzioni centrali, nei cui ruoli sono inserite, per un ammontare complessivo di poco più di 4.800 unità, alcune figure chiave dell’amministrazione: dai funzionari giuridico-pedagogici (una volta definiti educatori), ai funzionari contabili (i ragionieri), ai funzionari dell’area III^ (come gli ingegneri) al personale tecnico e amministrativo. Figure che, oggi, sono esterne sia alla dirigenza penitenziaria (legislativamente equiparata, sul piano economico-giuridico, alla dirigenza della Polizia di stato), sia al comparto sicurezza cui appartiene la Polizia penitenziaria; e che beneficiano di un trattamento giuridico e retributivo decisamente più modesto rispetto alle altre categorie del comparto penitenziario: ciò che, da un lato, rende la professione scarsamente appetibile per la platea dei possibili partecipanti ai non frequentissimi concorsi; e, dall’altro lato, concorre ad allargare il solco rispetto alle altre anime dell’Amministrazione, in una inevitabile competizione che vede sistematicamente perdente la categoria meno forte in termini politico-sindacali.


Vi è, poi, il grande tema che ruota intorno alla polizia penitenziaria, il cui organico, pur falcidiato dai tagli lineari della legge Madia del 2015, ammonta a oltre 41.000 unità e che, dunque, costituisce la forza largamente preponderante. I correttivi al riordino del 2019-2020, hanno consegnato all’amministrazione un numero elevatissimo di funzionari del Corpo, oltre 700, di cui oltre 170 sono ora in valutazione per diventare “primi dirigenti” e rispetto ai quali, conseguentemente, si pone il problema di definire il ruolo rispetto alla dirigenza penitenziaria. Quest’ultima, infatti, pur investita, all’interno degli istituti, di una posizione sovraordinata rispetto alla dirigenza di polizia penitenziaria, non prevede, nei suoi ruoli, quello di primo dirigente; con il paradosso che un soggetto di grado superiore si vede attribuito un ruolo subordinato a figure di grado inferiore. Ciò che costituisce, ovviamente, la premessa per una situazione di instabilità, e alimenta le sempre più risolute richieste, da parte delle organizzazioni sindacali della dirigenza di polizia penitenziaria, di superare il rapporto di subordinazione nei confronti della dirigenza penitenziaria, che l’ordinamento prevede in funzione di garanzia rispetto alle persone detenute.


Ma, più in generale, il principale tema politico riguarda il ruolo da riconoscere, in prospettiva, al personale di polizia penitenziaria, la cui presenza in carcere appare imprescindibile rispetto a una quota, numericamente minoritaria, di persone detenute di più elevato spessore criminale. Viceversa, rispetto alla stragrande maggioranza della popolazione detenuta, appare decisamente preferibile che, come avviene nel resto d’Europa, tale personale sia investito di compiti di controllo esterno al carcere, lasciando la gestione degli spazi detentivi a personale “civile”, altamente qualificato e addestrato alla gestione della relazione con le persone detenute, in grado di accompagnarle in un processo di piena realizzazione della cittadinanza.


Questi sono, nella mia esperienza, alcuni dei temi centrali che appare necessario mettere al centro di un’agenda riformista del prossimo futuro, che deve ripensare alcuni snodi cruciali nell’organizzazione dell’amministrazione al fine di consentirle di adempiere efficacemente al suo fondamentale mandato istituzionale.

01/02/2023

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