
L'insegnamento di Giuseppe Borrè
L'attualità del suo pensiero e il ricordo di Giovanni Palombarini
A vent’anni dalla sua scomparsa, abbiamo scelto di affidare alle parole di Giovanni Palombarini il ricordo di Pino Borrè, delle sue straordinarie qualità umane e professionali e dell’indissolubile legame che ha unito la sua vicenda personale alla storia di Magistratura democratica.
Con la pubblicazione della relazione «La professionalità dei magistrati», svolta a Genova il 18 gennaio 1986 al convegno «La professionalità del giudice e l’organizzazione degli uffici giudiziari», vogliamo testimoniare l’attualità del suo pensiero: l’eredità “viva” che Pino Borrè ci ha lasciato, tracciando il solco profondo lungo il quale dovrà proseguire il nostro impegno collettivo per l’attuazione dei principi costituzionali e per una magistratura al servizio della collettività.
L’Esecutivo di Magistratura democratica, 3 agosto 2017
IL RICORDO di Giovanni Palombarini
Nato nel 1932, in magistratura dal 1958, Borrè è stato un grande dirigente di Md, di cui è stato presidente e che ha rappresentato in Csm dal 1986 al 1990. Era anche un raffinato giurista. Di lui vanno in particolare ricordati gli studi di diritto processuale civile e di diritto fallimentare, materie che peraltro ha per molti anni insegnato presso l’Università di Pisa. Una risoluzione del Csm, da lui redatta sulla riforma del processo civile, è stata definita da Andrea Proto Pisani «uno dei momenti più alti di rappresentazione del processo civile di cognizione, delle sue idealità, della sua struttura e funzione».
Molti altri lo hanno già ricordato in passato come studioso e magistrato in qualche modo anomalo: pacato, colto, rigoroso, alieno da protagonismi, radicalmente innovatore e in dura contestazione con il ruolo tradizionale del giurista. Valutazioni di certo non esagerate. Ha saputo infatti affrontare i nodi proposti dal cambiamento che aveva investito il ceto dei giuristi e la magistratura sin dalla metà degli anni Sessanta con una capacità, da tutti riconosciuta, basata su una cultura politica e istituzionale assolutamente singolare.
Così, indipendenza, professionalità, merito, garantismo − le parole che sempre tornano nei discorsi dei magistrati − hanno trovato in Pino Borrè l’interprete più consapevole e autorevole.
«Quando si dice, nell’articolo 101 della Costituzione, che i giudici sono soggetti soltanto alla legge, non si rievoca il vecchio mito illuministico del primato della legge di cui il giudice altro non sarebbe che un meccanicistico applicatore. Il cuore della norma costituzionale sta in quell’avverbio − “soltanto” − che fa della fedeltà alla legge non un concetto statico ma dinamico, non uno stato di passività ma di tensione. Che il giudice sia soggetto soltanto alla legge non significa semplicemente che non vi debbono essere inframmettenze, ostacoli, poteri fra il giudice e la legge, ma significa anche che, proprio perché non debbono esservi tali schermi, l’opera del giudice è per definizione estranea alla logica dell’obbedienza, è fedeltà intrisa di disobbedienza; è rifiuto di burocratismo e di conformazione, è sovranità diffusa, e dunque, necessariamente, fedeltà pluralistica, segnata dalla dialettica e dal confronto; e quindi fedeltà che è conquista, e non rassegnazione all’unica soluzione possibile» (Intervento al VII Congresso nazionale di Md, noto come Rimini2, in Trasformazioni sociali e ruolo della magistratura, Democrazia e cultura della giurisdizione, Maggioli Editore, 1988, pagg. 533 ss, sotto il titolo Crescita della giurisdizione, professionalità, indipendenza).
Un giudice che opera nella società con queste caratteristiche deve necessariamente ispirare la sua attività a una nuova professionalità. «Certo non basta che i magistrati diventino tutti bravissimi; è certo che essere bravissimi può anche significare maggiore possesso dei mezzi tecnici per mistificare e manipolare. Ma non è questo il senso che io do al concetto di professionalità. Professionalità, per me, non è il prodotto della vecchia meritocrazia, anzi è qualcosa che nasce proprio dal superamento di questa, cioè dalle logiche di omologazione e di cooptazione che la caratterizzavano. E tanto meno può considerarsi come un armamentario di callidità tecniche. La professionalità, come io la penso, non è bagaglio di conoscenze ma qualità di cultura, non conformazione ma pluralismo; e dunque qualcosa che non può fondare, o coprire, scelte antigarantistiche, ma è tutt’uno con l’indipendenza e la cultura delle garanzie» (ivi, pag. 539).
Nel tempo in cui il Paese è stato investito dalla più forte spinta sociale al cambiamento che l’Italia abbia conosciuto dall’unità in poi, alla fine degli anni Sessanta, Borrè è stato un importante protagonista di una complessa operazione culturale e politica volta in primo luogo, come ha ricordato Stefano Rodotà, a liberare la magistratura dal mostruoso connubio con la politica che ne avevano connotato il passato, contribuendo alla ricomposizione integrale dell’ordinamento, fino a quel momento amputato del suo elemento fondativo, quello costituzionale. Anche la magistratura, nella sua autonomia, doveva provvedere all’attuazione dei principi dell’articolo 3 della Costituzione.
Qui, le parole indipendenza, professionalità, merito, garantismo, potevano tornare ad avere un senso. Una scelta di campo, quella di Md, che ha avuto in Borrè un interprete trainante, anche come fondatore e direttore, fino alla morte (Genova, 3 agosto 1997), della Rivista Questione Giustizia.
Di non minore rilevanza è stata la sua capacità di direzione politica. All’inizio degli anni Ottanta, mentre positivi cambiamenti stavano avvenendo nella magistratura (in particolare nella giurisprudenza), fu necessario prendere atto che tante speranze di trasformazione che si erano configurate a livello politico generale nel triennio 1968-70, si andavano ormai esaurendo. Era il tempo della crisi delle ideologie, della fine dei movimenti, del crescere al contempo delle leggi delle varie emergenze e degli attacchi all’indipendenza, in particolare alla configurazione del pubblico ministero. Era l’inizio di quella stagione che sarebbe stata definita, a partire dal congresso di Giovinazzo (1981), «di resistenza costituzionale».
Gli obiettivi di Md e il suo essere, nell’istituzione, il referente delle istanze di rinnovamento e di tutela degli interessi sottoprotetti, rimanevano fermi. Si trattava però di verificare in particolare se la configurazione maturata fin dalla fine degli anni Sessanta di Md come gruppo di militanti determinato a produrre continue rotture, anche con la dura critica alla giurisprudenza e alla gestione degli uffici, nel corpo di una magistratura considerato gravemente arretrato, al fine di determinare contraddizioni idonee a produrre modificazioni di segno democratico, fosse ancora adatta a una fase ormai cambiata; o se una sua ristrutturazione in gruppo di opinione non fosse invece più rispondente ai mutamenti, anche di segno negativo, ormai in corso. Il nuovo presidente di Md di questo mutamento di linea fu l’interprete più autorevole.
Tra l’altro, nella magistratura, il cambiamento suscitò interesse e approvazione: per molti anni, a partire da quel momento, le elezioni dell’Anm e del Csm videro una continua crescita di consensi.
A proposito di Borrè Livio Pepino ha ricordato una frase dello storico R.C. Van Caenegem secondo cui «è innegabile che i giuristi siano spesso stati servi e strumento del potere, qualunque esso fosse; ma questo non significa che si debbano dimenticare quegli altri che hanno seguito la loro coscienza e le loro idee, indipendentemente da o perfino contro chi governava il mondo».
Pino Borrè è stato uno di questi altri, e non è stato dimenticato.
Le scelte di Magistratura democratica, di G. Borrè, in Questione Giustizia on line, 31 gennaio 2013, http://www.questionegiustizia.it/articolo/le-scelte-di-magistratura-democratica_31-01-2013.php
Pesi e contrappesi: gli istituti di garanzia, di G. Borrè, in Questione Giustizia on line, 4 ottobre 2016, http://www.questionegiustizia.it/articolo/pesi-e-contrappesi_gli-istituti-di-garanzia_04-10-2016.php
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