Trent'anni dopo Capaci
La solitudine dei giusti
Risulta davvero complesso non finire per essere scontati quando ci si propone di mettere giù alcuni pensieri in occasione del trentennale della strage di Capaci.
A maggior ragione se si considera che lo Zeitgeist imporrebbe di accomodarsi al tavolo del pensiero unico, suggerendo un impietoso parallelismo fra la fulgida immagine dell’eroe Falcone e la grave crisi di credibilità che investe la magistratura italiana. E soprattutto se a ricordare questa ricorrenza sono giovani magistrati, che ricordi vividi di quell’epoca non possono averne, e la cui idea di Giovanni Falcone si è formata sulla base delle letture fatte, dei racconti ascoltati e della eroica immagine di lui che si è inteso costruire nel tempo.
Non intendiamo certamente sminuire la rivoluzionaria e determinante opera di innovazione nel contrasto alle mafie ascrivibile al pensiero visionario di Giovanni Falcone. Ma non preferiamo ricordarlo come un eroe, non tanto per un banale tentativo di essere originali, quanto piuttosto perché siamo convinti del fatto che significherebbe relegarlo in una dimensione altra e distante, finendo per deresponsabilizzare un’intera categoria.
Per noi Giovanni Falcone è stato innanzitutto un uomo, nella carne, come ha dimostrato la sua tragica fine, e nello spirito.
Se conserviamo la foto di Giovanni Falcone nei nostri uffici non è per vanità, né per un’idea della magistratura in lotta contro le mafie, ma per ricordarci che chi fa questo lavoro può essere irrimediabilmente solo.
Ecco, per noi Giovanni Falcone è prima di tutto la più alta, e al tempo stesso drammatica, rappresentazione della solitudine in cui spesso si trovano a lavorare i giusti. Non è un caso che Pasolini suggerisca che dove c’è la debolezza della solitudine spesso c’è anche la forza dell’indipendenza. Per noi questo è Giovanni Falcone, non tanto un eroe pubblico, ma un modello del privato, che ci ricorda che la resistenza è innanzitutto, prima che un gesto sociale, un atto intimo di servizio nei confronti degli altri, l’interiorizzazione della scelta che vale la pena di farcela solo se ce la fanno anche gli altri.
A nostro avviso, il sentimento che ha mosso la sua azione è stato quello dell’implacabile determinazione ad andare avanti nel proprio lavoro, a prescindere dall’isolamento e dalla delegittimazione.
Sotto questo aspetto, allora, si è davvero trattato dell’opera di un uomo, non riservata a pochi eletti, ma astrattamente praticabile da ciascuno di noi.
Ciò che si ammette con difficoltà è che, proprio perché uomo fra gli uomini (ed in quanto tale in grado di ingenerare invidia), per certi versi si è ritenuto più comodo osteggiarlo, spesso da parte della stessa magistratura associata, nella maggior parte delle attività e dei progetti che hanno caratterizzato il suo percorso professionale, piuttosto che rendersi partecipi di quel progetto di cambiamento.
Mentre, dopo la sua morte, quell’ostilità si è troppo spesso trasformata in un’opera di divinizzazione, in una postuma condivisione del metodo e dell’agire, in definitiva in un’appropriazione della memoria, a tratti un po’ ipocrita.
Riteniamo, perciò, che il modo migliore per ricordarlo sia affrancarsi dal senso di comunanza con la sua immagine di eroe che consapevolmente va verso la morte e cercare di farsi dirigere dalla sua dimensione umana, assumendosi la responsabilità che deriva semplicemente dallo svolgere con abnegazione, efficienza e ‘spirito di servizio’ la propria funzione.
Vorremmo concludere questi affastellati pensieri ricordando una frase di Giovanni Falcone, che riteniamo debba rappresentare un monito per il richiamo alle proprie responsabilità soprattutto per le giovani generazioni: “La cultura del sospetto non può investire tutto e tutti. La cultura del sospetto non è l’anticamera della verità, ma l’anticamera del khomeinismo”.
Enrico Contieri, Emanuele De Franco, Giuseppe Borriello
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