Civile

Registrazione e resoconto quarto seminario - La riforma della giustizia civile


Il 2 marzo 2023, dalle 15.30, si è svolto il quarto dei Seminari promossi da Magistratura Democratica sulla riforma del processo civile, con la partecipazione di oltre centocinquanta persone collegate da remoto e dei presenti nella saletta della ANM, al sesto piano del Palazzaccio.


Nel corso del seminario, la cui registrazione è accessibile al link https://youtu.be/McOIWzDo1Qo, sono state esaminate diverse questioni relative alle impugnazioni.


1. Oggetto dell’incontro e data di decorrenza delle norme sulle impugnazioni.
Il seminario, in apertura del quale è stato rivolto un pensiero commosso alle vittime del naufragio di Cutro, è stato dedicato alle parti della riforma relative alle impugnazioni e, in particolare, alle norme aventi ad oggetto: il principio della chiarezza e sinteticità degli atti introduttivi; il processo d’appello nel giudizio “ordinario” di cognizione; il processo di appello in materia di persone, minorenni e famiglia; l’inibitoria; il processo di cassazione. In base al novellato art. 35, comma 4, del d.lgs. n. 149/2022, per quanto attiene al giudizio d’appello “ordinario”, la nuova normativa si applica alle impugnazioni proposte con citazione (o con ricorso depositato) successivamente al 28 febbraio 2023. La norma si riferisce soltanto alla disciplina dell’appello nel processo ordinario e non menziona l’appello in materia di famiglia, che ricade dunque sotto la previsione generale di cui al primo comma e, quindi, per quanto concerne le impugnazioni in materia di famiglia, le nuove disposizioni troveranno applicazione solo relativamente ai procedimenti iniziati in primo grado dopo il 28 febbraio 2023 e, cioè, solo ai procedimenti rispetto ai quali il ricorso introduttivo sia stato depositato successivamente a tale data.
Con riguardo al giudizio di cassazione, la nuova normativa trova applicazione a decorrere dal 1° gennaio 2023, sia per i ricorsi pendenti a tale data, sia per quelli proposti successivamente.
Si rinvia (per una visione più generale in ordine all’entrata in vigore della riforma) al resoconto del secondo incontro seminariale tenutosi il 19 gennaio 2023 sui temi relativi al giudizio di primo grado.


2. Una prescrizione comune a tutte le impugnazioni.
Comune a tutte le impugnazioni è la prescrizione relativa alla “chiarezza” e “sinteticità” che, già enunciata in via generale nell’art. 121 c.p.c., è stata riproposta - con l’aggiunta per l’atto di appello del requisito della “specificità” – nelle norme relative alle singole impugnazioni (art. 342 c.p.c.: “l'appello deve essere motivato, e per ciascuno dei motivi deve indicare a pena di inammissibilità, in modo chiaro, sintetico e specifico etc.”; art. 434 c.p.c.:” l'appello deve essere motivato, e per ciascuno dei motivi deve indicare a pena di inammissibilità, in modo chiaro, sintetico e specifico etc.”; art. 366 c.p.c.: il ricorso per cassazione deve contenere “3) la chiara e sintetica esposizione dei motivi per i quali si chiede la cassazione etc.”).
Prima che i decreti delegati fossero approvati dal Consiglio dei Ministri, era stato segnalato il rischio che tali espressioni potesse dare origine nella pratica a dispute interpretative e ad applicazioni improprie delle norme. È opinione concorde tuttavia che, sebbene inserita tra i requisiti indicati a pena di inammissibilità, la prescrizione relativa alla “chiarezza” e “sinteticità” (costituente un portato culturale dell’elaborazione maturata in particolare nell’ambito degli Osservatori sulla giustizia civile) debba essere interpretata nel senso che l’eccessiva lunghezza e l’eventuale farraginosità dell’atto possano tradursi in ragione di inammissibilità solo quando si risolvano in una esposizione oscura o lacunosa dei fatti di causa e siano tali da pregiudicare la intellegibilità delle censure mosse alla sentenza gravata; e ciò, conformemente all’insegnamento espresso dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 37522 del 2021, pronunciata quando il principio di chiarezza e sinteticità, già prima della riforma, era ritenuto immanente al sistema (e vedi anche la sentenza delle Sezioni Unite n. 27199/2017, ugualmente richiamata nel corso del seminario, secondo cui gli artt. 342 e 434 c.p.c. andavano interpretati nel senso che l’impugnazione dovesse contenere una chiara individuazione delle questioni contestate della sentenza impugnata e delle relative doglianze, con una parte argomentativa a confutazione delle ragioni addotte dal primo giudice, senza necessità che l’atto di appello rivestisse particolari forme, ovvero contenesse la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado).
L’impugnazione dunque non può essere considerata inammissibile ove consenta comunque di individuare con precisione le doglianze mosse alla sentenza impugnata, soddisfacendo in tal modo al requisito della “specificità” di cui parlano le norme più sopra richiamate.
Né argomenti contrari potrebbero essere desunti dall’art. 46 disp. att. c.p.c. che, dettando disposizioni in ordine alla forma ed ai criteri di redazione dei processi verbali e degli altri atti giudiziari creati in modalità informatica, precisa testualmente al penultimo comma che il mancato rispetto delle specifiche tecniche sulla forma e sullo schema informatico e dei criteri e limiti di redazione dell’atto “non comportano invalidità”, ma possono essere valutati dal giudice unicamente “ai fini della decisione sulle spese del processo”.
Anche il “Protocollo d’intesa sul processo civile in cassazione”, stipulato tra la Corte di cassazione, la Procura Generale della Corte di cassazione, l’Avvocatura Generale dello Stato ed il Consiglio Nazionale Forense e sottoscritto il 1° marzo 2023 (un testo che raccoglie ed unifica i protocolli di intesa già intercorsi tra i medesimi soggetti, ed ha come oggetto tra l’altro le modalità di redazione degli atti da parte degli avvocati ed i canoni di sinteticità e chiarezza in relazione all’obbligatorietà del processo telematico), pur indicando la dimensione normalmente richiesta per ricorsi, i controricorsi e le memorie, e pur facendo carico alla parte che ecceda tali misure di motivarne la ragione, ha chiarito che il mancato rispetto di tali indicazioni non implica inammissibilità o improcedibilità, ma può rilevare eventualmente soltanto ai fini della condanna alle spese processuali. E, a proposito dei protocolli, non sembra inopportuno sottolineare ancora una volta quanto la pratica del dialogo e del confronto, tanto più utile e preziosa a fronte di novità legislative, possa
contribuire ad evitare, su questa come su altre questioni interpretative, contrapposizioni tra giudici e avvocati che non giovano al miglior funzionamento della giustizia.
A chiusura delle considerazioni sul tema, si osserva che a maggior conforto della conclusione più sopra indicata è stato fatto riferimento anche al principio contenuto nell’art. 156 c.p.c., in base al quale non può essere pronunciata la nullità per inosservanza di forme di alcun atto del processo, ove la nullità non sia comminata dalla legge.
Al riguardo, essendo stato sostenuto in qualche commento alla riforma che la mancanza di chiarezza e l’indeterminatezza dell’oggetto potrebbero determinare la nullità del gravame, salvo rinnovazione dell’atto ai sensi dell’art. 164 c.p.c.; ma in tal modo - come è stato opportunamente replicato - si trascura di considerare che, avendo la rinnovazione efficacia ex nunc, essa avverrebbe quando di fatto i termini ex art. 325 c.p.c. per impugnare sono ormai scaduti e la sentenza è passata in giudicato.


3. Questioni relative al giudizio d’appello “ordinario”.
A) Tra le (non molte) novità introdotte dalla riforma per il giudizio di appello la previsione più rilevante - ma che ha anche suscitato maggiori dubbi e perplessità - è quella contenuta nell’art. 349 - bis c.p.c. con la quale è stata reintrodotta la figura del consigliere istruttore (“Quando l’appello è proposto davanti alla corte di appello, il presidente, se non ritiene di nominare il relatore e disporre la comparizione delle parti davanti al collegio per la discussione orale, designa un componente di questo per la trattazione e l’istruzione della causa”), una figura che era stata soppressa con la novella del 1990 perché ritenuta causa di inefficienza.
Durante i lavori preparatori della riforma erano state fatte pervenire alla Ministra Cartabia osservazioni per evidenziare che il “collo di bottiglia” in appello non è costituito dalla mancanza dell’istruttore, e per sottolineare che in molte corti si stava portando avanti un grande sforzo di recupero di efficienza e di modifica del modo di lavorare del giudice d’appello: un giudice che fa una precamera di consiglio, va in udienza conoscendo la causa, fa una discussione orale ed è in grado di decidere subito le cause inammissibili, palesemente fondate o infondate, ed utilizza la motivazione a verbale, recuperando così oralità e concentrazione. La reintroduzione della figura del consigliere istruttore non sarebbe stata coerente con quel modello di “nuovo” giudice di appello, diversamente organizzato e strutturato, cui si stava attendendo con cura per renderlo concretamente operativo nell’esperienza degli uffici giudiziari.
Il legislatore non ha accolto integralmente tali preoccupazioni, ma, nella stesura definitiva della norma, ha evitato di prescrivere la designazione del consigliere istruttore come scelta obbligata, configurandola invece quale atto discrezionale del presidente, il quale, sulla base della sentenza e dell’atto di appello, dovrebbe svolgere una funzione di “filtro” al fine di verificare la sussistenza dei presupposti per pervenire alla decisione in forma semplificata ai sensi del 350 - bis c.p.c.
Si è osservato che, con la norma in considerazione, il legislatore ha perseguito l’intento di una maggiore responsabilizzare nello svolgimento del giudizio d’appello, perché, se è vero che normalmente il consigliere relatore arriva in udienza avendo già studiato il fascicolo e che per il tramite della precamera di consiglio il collegio ha già una conoscenza adeguata del processo, si verifica anche il caso del collegio che giunge all’udienza completamente all’oscuro dell'oggetto del processo, si limita a concedere i termini dell’art. 190 c.p.c. e successivamente emette la sentenza. Sotto altro profilo, lo svolgimento dell’attività di “filtro” in questione potrebbe essere facilitata facendo sì che il presidente sia coadiuvato dagli addetti all’Ufficio del processo, costituendo una sorta di embrionale “ufficio spoglio” o delegando questo spoglio preliminare al giudice designato dal sistema informatico di assegnazione dei processi il quale, previa verifica più o meno rapida degli atti, potrà poi suggerire al presidente l’opportunità di nominare quel determinato consigliere come
istruttore o di indirizzarsi direttamente alla fase di discussione orale designando quest’ultimo come relatore.
Il “passaggio” attraverso il consigliere istruttore è apparso, nell’intento del legislatore, quello più agile per instradare il processo verso il percorso più pertinente in relazione alle peculiarità del caso concreto.
Si è tuttavia osservato che la concreta applicazione della norma imporrebbe ai presidenti di sezione uno studio preliminare di tutte le cause pervenute alla sezione per individuare gli appelli che possono essere inviati immediatamente a decisione ai sensi dell’art. 350 - bis c.p.c., e quelli che necessitano invece di una trattazione più approfondita; ed il numero delle cause delle Corti d’appello, specie negli uffici di maggiori dimensioni, è talmente elevato da rendere impensabile che essi possano svolgere una simile attività, a meno di non distoglierli da ogni altra funzione.
Allo stato non risulta che nelle corti d’appello siano state adottate soluzioni organizzative omogenee.
Tenendo conto dei margini di elasticità offerti dalla norma, in alcune si è ipotizzato un turno dei consiglieri della sezione cui delegare periodicamente l’attività di filtro. In altre (dove tra l’altro è scarsamente utilizzato la forma di decisione ai sensi dell’art. 281- sexies c.p.c.), salvo casi limitati di manifesta infondatezza o di inammissibilità immediatamente rilevabile dall’atto di appello, ad esempio, per tardività dell’impugnazione, si prevede di procedere sempre alla nomina del consigliere istruttore, prescindendo da ogni studio preliminare degli atti, e confidando nel fatto che lo stesso consigliere istruttore ai sensi dell’art. 350, terzo comma, c.p.c. dopo aver preso cognizione anche delle difese delle parti appellate, possa attivare il meccanismo decisorio semplificato di cui all’art. 350 – bis c.p.c., l'articolo 350, terzo comma c.p.c. prevedendo appunto che il consigliere istruttore possa optare per una decisione in forma semplificata nei casi di inammissibilità, manifesta infondatezza nonché in quelli di manifesta fondatezza oppure quando lo ritenga opportuno per la non elevata complessità della causa o perché reputi che ricorrono ragioni di urgenza.
In altre corti d’appello (tra cui quella di Roma) è stato invece rilevato come la scelta di designare sempre il consigliere istruttore comporta quale effetto una duplicazione di udienze e problemi legati anche al reperimento delle aule relative, e ciò in funzione del compimento da parte del consigliere istruttore di attività che possono essere svolte e che in appello fino ad oggi sono sempre state svolte dal Collegio. Per di più potrebbe verificarsi che il consigliere istruttore non debba fare altro che rimettere le parti davanti al collegio per la decisione contestuale, ovvero a seconda dei casi far precisare le conclusioni ed assegnare i termini a difesa per poi rimettere le parti innanzi al collegio.
Poiché tale soluzione non è sembrata idonea ad un recupero di efficienza, facendo leva sulla premessa che l’art. 349 - bis c.p.c. debba essere interpretato conformemente alle esigenze di celerità, in queste corti d’appello si è stabilito di procedere sempre con la nomina del relatore (che avviene tabellarmente in base a criteri automatici), mentre quella dell’istruttore verrà effettuata dal presidente solo nei casi eccezionali in cui si prospetti una istruttoria del tutto straordinaria. Tale soluzione è stata altresì ritenuta quella più idonea per garantire l’oralità e la collegialità quali strumenti fondamentali per l’avanzamento del giudizio di appello.
Sebbene la designazione del consigliere istruttore sia configurata dall’art. 340-bis c.p.c. in termini di facoltatività, si ritiene che, nel caso in cui la sospensiva ex art. 351 c.p.c. sia richiesta con ricorso anteriormente all’udienza indicata in citazione, tale designazione si renda invece necessaria. Naturalmente in tal caso l’udienza sulla sospensiva si svolgerà davanti all’istruttore, ma la decisione competerà sempre al collegio.
B) Un’altra significativa innovazione introdotta per il giudizio d’appello, è quella relativa ai requisiti per ottenere la sospensione della sentenza impugnata.
Anteriormente alla riforma, e in base al testo vigente sino al 28 febbraio 2023, la possibilità di ottenere un provvedimento di sospensione era legata alla sussistenza di “gravi” e “fondati”
motivi, anche in relazione alla possibilità di insolvenza di una delle parti, mentre adesso è sufficiente la ricorrenza alternativa dell’uno o l’altro requisito (novellato art. 283 c.p.c.: “ll giudice d'appello….sospende in tutto o in parte l'efficacia esecutiva o l'esecuzione della sentenza impugnata….se l’impugnazione appare manifestamente fondata o se dall’esecuzione della sentenza può derivare un pregiudizio grave e irreparabile, pur quando la condanna ha ad oggetto il pagamento di una somma di denaro, anche in relazione alla possibilità di insolvenza di una delle parti”).
Davanti alla corte di appello, i provvedimenti sull’esecuzione provvisoria sono adottati alla prima udienza con ordinanza collegiale. Tuttavia può essere nominato un istruttore il quale, sentite le parti, riferisce al collegio. Nell’ipotesi, invece, in cui sia stato nominato il relatore, il presidente del collegio dovrebbe fissare direttamente la discussione davanti al collegio, e sarà davanti al collegio che le parti dovranno comparire.
È stato mantenuto fermo il potere del presidente del collegio, laddove sussistano ragioni di urgenza, di disporre provvisoriamente la sospensione dell’efficacia esecutiva o l’esecuzione della sentenza, mediante decreto che il collegio confermerà, modificherà o revocherà con ordinanza non impugnabile pronunciata all’esito dell’udienza in camera di consiglio.
Il provvedimento di sospensione nel processo esecutivo è reclamabile (sia nel caso di provvedimento ex art. 615, primo comma, c.p.c., sia nel caso di provvedimento ex art. 615, secondo comma, c.p.c.). L’inibitoria, invece non lo è. L’istanza di sospensione, inoltre (e vi è qui un ritorno al passato) può essere proposta e riproposta nel corso del giudizio di appello se si verificano mutamenti nelle circostanze, che devono essere specificamente indicati nel ricorso, a pena di inammissibilità (novellato art. 283, secondo comma, c.p.c.). In base all’art. 351,quarto comma c.p.c. il giudice, all'udienza prevista dal primo comma, se ritiene la causa matura per la decisione, può provvedere ai sensi dell'articolo 281-sexies c.p.c. Davanti alla corte di appello, se l'udienza è stata tenuta dall'istruttore, il collegio, con l'ordinanza con cui adotta i provvedimenti sull'esecuzione provvisoria, fissa udienza davanti a sé per la precisazione delle conclusioni e la discussione orale e assegna alle parti un termine per note conclusionali. Si è data in tal modo continuità alla previsione introdotta con la legge n. 183 del 2011 in base alla quale appunto il giudice, all’udienza designata per la discussione sulla sospensiva, ove avesse ritenuto la causa matura per la decisione, avrebbe potuto provvedere direttamente ai sensi del 281 - sexies c.p.c. omettendo di pronunciarsi sulla sospensiva.
Viene confermato che l’inibitoria non può essere richiesta prima della proposizione dell’appello.
C) Relativamente ad altri profili del giudizio d’appello, si è rilevato come la nuova formulazione dell’art. 342 c.p.c. renda evidente che la valutazione di ammissibilità deve essere compiuta con riguardo a ciascuno dei motivi di impugnazione, e che la sostituzione del riferimento alle “parti” della sentenza con il riferimento al “capo” della decisione formalizza a livello normativo l’indirizzo giurisprudenziale secondo cui il giudicato interno può formarsi soltanto su un capo autonomo della sentenza, e cioè su quello che risolva una questione controversa tra le parti, caratterizzata da una propria individualità ed autonomia, sì da integrare in astratto gli estremi di un decisum affatto indipendente, ma non anche su quello relativo ad affermazioni che costituiscano mera premessa logica della statuizione in concreto adottata.
Sempre la dizione della norma varrebbe inoltre a favorire il superamento del rigoroso indirizzo espresso in alcun pronunce della sezione lavoro della Corte di cassazione, secondo cui l’atto di gravame richiede, a pena di inammissibilità, non soltanto che in esso siano svolte compiute argomentazioni in contrapposizione alla sentenza impugnata, ma anche che venga trascritta o riportata con precisione la pertinente parte motiva di tale sentenza.


4. Questioni relative alle impugnazioni dei provvedimenti in materia di persone, minorenni e famiglie.
Con riguardo al giudizio d’appello in materia di persone, minorenni e famiglie, quantunque il breve tempo trascorso dall’introduzione della nuova normativa non abbia ancora consentito di valutare in modo approfondito le novità della riforma ed il loro impatto sugli uffici giudiziari, in alcuni distretti sono già emerse alcune criticità.
In appello, dove la trattazione è collegiale, è molto frequente che si proceda ad un'istruttoria supplementare perché molte volte in prime cure non sono stati sentiti i minori, non è stato nominato un curatore speciale nei casi in cui ve ne sarebbe stata la necessità, non è stata ammessa una CTU per valutare il patrimonio delle parti quando magari sarebbe stata auspicabile darvi corso.
Si pongono poi problemi interpretativi quanto alla distinzione tra i “provvedimenti indifferibili” di cui all’art. 473-bis. 15 c.p.c., che li definisce come “necessari”, e gli “0pportuni “provvedimenti “temporanei ed urgenti” di cui all’art. 473-bis.22 c.p.c., nonché in ordine al regime di impugnabilità di tali provvedimenti interinali.
A) L’art. 473-bis. 24 c.p.c., che detta la disciplina relativa al giudizio di primo grado, prevede espressamente che avverso i provvedimenti temporanei e urgenti di cui al primo comma dell’articolo 473-bis.22 c.p.c. (quelli pronunciati all’udienza di comparizione delle parti) e contro i provvedimenti temporanei emessi in corso di causa (che sospendono o introducono sostanziali limitazioni alla responsabilità genitoriale, ovvero prevedono sostanziali modifiche dell’affidamento e della collocazione dei minori o ancora ne dispongono l’affidamento a soggetti diversi dai genitori), si può proporre reclamo con ricorso alla corte d’appello.
Per ordinanze rese in corso di causa dovrebbero intendersi sia quelle in cui per la prima volta vengono adottati provvedimenti, sia quelle con cui vengono modificati tali provvedimenti a condizione che abbiano ad oggetto le situazioni menzionate nell’art. 473-bis. 24, secondo comma c.p.c.
B) Nulla invece è detto con riguardo ai provvedimenti indifferibili di cui all’art. 415-bis.15 c.p.c., restando c0sì imprecisato a livello legislativo se essi siano reclamabili o no.
Al riguardo è stato innanzi tutto rilevato (richiamando considerazioni già svolte nel corso dell’incontro seminariale del 15 febbraio 2023 dedicato al tema “Il processo unificato in materia di persone, minorenni e famiglia”) che l’art. 473 – bis. 15 c.p.c. si riferisce ai provvedimenti che possono essere richiesti tra il deposito del ricorso e la prima udienza, dal momento che l’inciso “nei limiti delle domande proposte” contenuto nella norma, implica che le parti, per poterli richiedere, abbiano già instaurato il giudizio. Ciò, tuttavia, non esclude che, ove un’urgenza abbia a manifestarsi prima del deposito del ricorso, colui che lamenta un pregiudizio imminente e irreparabile possa chiedere un provvedimento d'urgenza.
È stata poi avanzata la tesi secondo cui, trattandosi di provvedimenti modellati alla stregua del rito cautelare uniforme, con i quali il legislatore ha inteso dare una risposta al vuoto di tutela esistente tra il deposito del ricorso e quella che, prima della riforma, era l’udienza presidenziale, essi sarebbero reclamabili davanti ad un collegio di cui non può far parte il giudice che ha emesso il provvedimento; e ciò anche per un'esigenza di accelerazione del giudizio, trattandosi di provvedimenti destinati ad essere assorbiti da quelli successivi che verranno presi nel corso del processo,
Secondo un’altra opinione, invece, sia i provvedimenti indifferibili di cui all’art. 473 – bis. 15 c.p.c., sia i provvedimenti d’urgenza, pur se emessi “inaudita altera parte”, debbono poi essere confermati dal giudice del merito, che non è il giudice singolo del tribunale né l’istruttore del processo ordinario, ma – trattandosi di controversie affidate ad un giudice in formazione collegiale – è il relatore componente del collegio, al pari di quanto accade per i provvedimenti “ante causam” in materia agraria e in materia di proprietà industriale. Il
legislatore, che avrebbe potuto fare opera di chiarezza, non ha provveduto a modificare l’art. 669 - terdecies c.p.c. ove sta scritto che il reclamo contro i provvedimenti del giudice singolo del tribunale si propone al collegio, del quale non può far parte il giudice che ha emanato il provvedimento reclamato, e che il reclamo avverso il provvedimento emesso dalla Corte d'appello si propone ad altra sezione della stessa Corte o, in mancanza, alla Corte d'appello più vicina, mentre nulla ha detto per il caso il caso in cui il giudice del merito debba trattare collegialmente la controversia.
In base a questa diversa interpretazione, è da ritenere che sia i provvedimenti indifferibili ex art. 473 – bis. 15 c.p.c. sia i provvedimenti cautelari emessi “ante causam” richiedano la conferma ad opera del collegio, e che il reclamo avverso il provvedimento collegiale debba essere proposto alla corte d’appello. È stato, tuttavia, sottolineato come le discussioni sul tema abbiano un valore essenzialmente teorico, dal momento che si tratta di provvedimenti destinati ad essere assorbiti e sostituiti da quelli temporanei e urgenti emessi ai sensi dell'articolo 473 - bis. 22 c.p.c. i quali, come osservato, sono reclamabili per espressa disposizione normativa, in conformità ad un sistema nel cui ambito i provvedimenti provvisori emessi nel corso di procedimenti camerali (si pensi ad esempio a quelli ex art. 710 c.p.c. o ex art. 9 della legge sul divorzio, o ai provvedimenti provvisori che possono essere emessi nei procedimenti diretti alla dichiarazione dello stato di abbandono o dell'affidamento preadottivo) sono concordemente ritenuti reclamabili.
È stato poi ricordato che, in base all’art. 473 - bis. 24 c.p.c., tali provvedimenti sono altresì ricorribili per cassazione; ma il richiamo contenuto nella norma all’art. 111 della Cost. rende manifesto che ricorribili sono soltanto i provvedimenti aventi carattere di decisorietà e definitività. Si richiamano, al riguardo, le considerazioni svolte nell’incontro seminariale del 15 febbraio 2023.
C) L’art. 473 - bis.34 c.p.c. dispone poi che il giudice dell’appello possa adottare i provvedimenti di cui agli articoli 473-bis.15 c. p. c. e 473-bis.22 c.p.c.
La norma (che attiene fondamentalmente ai provvedimenti di modifica o di revoca di quelli già dati con la sentenza di primo grado) è stata introdotta perché - come osservato anche nella relazione predisposta dall’Ufficio del Massimario della Cassazione – il rimedio della mera sospensiva di cui all’art. 283 c.p.c. non è tale da soddisfare le esigenze che possono presentarsi nell’ambito della famiglia, dove i provvedimenti sono soggetti a modifica in relazione al variare delle condizioni nel corso del tempo.
Premesso che per giudice di cui si parla nella norma deve essere inteso, logicamente, sempre quello in composizione collegiale, anche con riguardo a tali provvedimenti nulla è stato detto dal legislatore quanto alla loro reclamabilità e al giudice innanzi al quale dovrebbe essere proposto il reclamo. Le alternative prospettate già nel corso del seminario precedente e riemerse in questo sono quella che ne esclude la reclamabilità, trattandosi di misure destinate ad essere assorbite dalla decisione di merito, e l’altra invece secondo cui essi sono reclamabili davanti ad altra sezione o quanto meno ad altro collegio della medesima corte in diversa composizione.
D) Sempre in materia di appello, anche se l’art. 473–bis. 30 c.p.c. si apre con il richiamo all’art. 342 c.p.c., occorre ricordare che in materia vige il principio del rebus sic stantibus e che in base al novellato art.473-bis.35 c.p.c. il divieto di nuove domande ed eccezioni e di nuovi mezzi di prova previsto dall’articolo 345 c.p.c. si applica limitatamente alle domande aventi ad oggetto diritti disponibili.
Sul tema si richiamano anche le considerazioni svolte nell’incontro seminariale del 15 febbraio 2023.


5. Il giudizio di cassazione.
Con riguardo al giudizio di cassazione, la riforma ha apportato alcune modifiche attinenti all’ambito dei provvedimenti impugnabili, ai requisiti del ricorso ed al procedimento.
A) Per quanto concerne i provvedimenti impugnabili, il nuovo 4° comma dell’art. 360 c.p.c. riprende, con migliore collocazione sistematica, la disposizione limitativa del ricorso per cassazione in caso di doppia conforme prima contenuta nell’ora abrogato art. 348-ter c.p.c., ma ne riduce la portata escludendone l’applicabilità a tutte le cause in cui è obbligatorio l’intervento del pm.
Con l’art. 362 c.p.c. è stato poi introdotto un motivo di ricorso in cassazione per revocazione delle decisioni dei giudici ordinari passate in giudicato quando il loro contenuto sia stato dichiarato dalla Corte di Strasburgo contrario alla Cedu (vedi infra, lett. D).
B) Relativamente al ricorso, la modifica apportata all’art. 366, comma 1, nn. 3 e 4 c.p.c., consistente nella precisazione che l’esposizione dei fatti di causa deve essere “chiara” e che quella dei motivi di ricorso deve essere “chiara e sintetica”, rafforza un precetto da intendere non formalisticamente e che poteva già considerarsi implicito nel testo precedente.
La novità più rilevante per quel che concerne il contenuto del ricorso è nel numero 6 del primo comma del medesimo art. 366 c.p.c., che, sempre a pena d’inammissibilità, dopo aver prescritto la specifica indicazione degli atti e documenti sui quali il ricorso si fonda, ora aggiunge “l’indicazione del contenuto rilevante degli stessi”, all’evidente scopo di circoscrivere la portata del c.d. principio di autosufficienza del ricorso. Di tale principio, frutto di elaborazione esclusivamente giurisprudenziale, si è fatto in passato un uso talvolta eccessivo ed assai formalistico, sino a pretendere la pedissequa ed integrale trascrizione nell’ambito del ricorso del testo dei documenti o degli atti del giudizio di merito cui il ricorrente si riferiva, anche quando il contenuto di quegli atti o documenti sarebbe stato comunque agevolmente evincibile dall’esposizione del ricorso medesimo o della sentenza impugnata ad esso allegata.
La nuova formulazione della norma, richiedendo soltanto che sia indicato “il contenuto rilevante” di tali atti o documenti”, dovrebbe poter evitare simili eccessi, pur lasciando aperta la questione se sia o meno sufficiente operare un’indicazione per relationem agli atti o documenti prodotti e depositati ai sensi del successivo art. 369, n. 4 c.p.c. C) Per quanto concerne il procedimento, è stata soppressa la VI sezione (c.d. “sezione filtro”), ed il ricorso viene assegnato immediatamente alla sezione tabellarmente competente, il cui presidente o un consigliere da lui delegato possono tuttavia disporre che il ricorso sia trattato con “decisione accelerata”, ex art. 380-bis c.p.c., se esso appaia inammissibile, improcedibile o manifestamente infondato (non anche manifestamente fondato, come prima avveniva invece con la “sezione filtro”: il che implicherebbe, sul piano della buona organizzazione, la creazione di canali decisori tali da evitare una loro posposizione con l’anomala conseguenza che chi ha evidenti ragioni per l’accoglimento dell’impugnazione venga soddisfatto in ritardo rispetto agli altri).
La funzione della “sezione filtro”, consistente nell’eliminazione rapida dei ricorsi decidibili prima facie in modo da liberare le maggiori energie della Corte al servizio della funzione nomofilattica, ha finito per sovrapporsi ai compiti delle sezioni ordinarie, nell’ambito delle quali ugualmente deve operarsi una sorta di scrematura delle questioni più o meno rilevanti per incanalare la decisione alla camera di consiglio o alla pubblica udienza.
Ne è risultato un oggettivo allungamento dei tempi di trattazione (poteva trascorrere anche un anno per il trasferimento del fascicolo dalla cancelleria centrale alla cancelleria della sezione filtro, tempo al quale doveva aggiungersi quello della fissazione dell’udienza, della decisione ed, in alcuni non rarissimi casi, della rimessione alla sezione semplice che doveva rifissare l’udienza e poi decidere) e, talvolta, anche un qualche scollamento nella trattazione delle medesime questioni tra la sezione filtro e le sezioni ordinarie.
A tali inconvenienti la riforma sembra ora voler ovviare riportando all’interno delle singole sezioni semplici il compito di instradare il ricorso, a seconda dei casi, verso il rito accelerato, verso la trattazione camerale o verso la pubblica udienza.
Se si sceglie il rito accelerato, viene comunicata alle parti una “sintetica proposta”, nella quale (come ben chiarito anche dal menzionato Protocollo) occorrerà indicare con chiarezza le ragioni di tale scelta e gli eventuali precedenti giurisprudenziali che la sorreggono.
Il difensore del ricorrente, munitosi di nuova speciale procura allo scopo di garantire che egli abbia consultato la parte prima di decidere se insistere nell’iniziativa processuale, ha 40 gg. di tempo per chiedere la decisione con rito camerale, dovendosi altrimenti intendere che abbia rinunciato al ricorso.
Se però viene chiesta la decisione della Corte e la decisione risulta poi conforme alla proposta non accettata dalla parte, quest’ultima è soggetta alla responsabilità aggravata di cui al 3° e 4° comma dell’art. 96 c.p.c.
Se non sussistono le condizioni per la decisione accelerata, il ricorso viene deciso con ordinanza, a seguito di adunanza camerale non partecipata, oppure con sentenza all’esito di pubblica udienza secondo i criteri già da tempo in vigore.
Secondo quanto precisato nel menzionato Protocollo, la parte può motivatamente chiedere che un ricorso per il quale sia stato previsto il rito camerale non partecipato sia invece trattato in pubblica udienza per la particolare rilevanza nomofilattica delle questioni che esso involge.
Nel corso del seminario sono stati espressi dubbi e riserve su questa forma di definizione accelerata che – si è osservato - stabilisce un evidente ed esclusivo rapporto tra relatore e difensori delle parti, ignorando ogni collegialità ed ogni possibile scrutinio ad opera di una parte pubblica esterna al rapporto contenzioso, secondo una linea di tendenza che, attraverso interventi successivi, vede sempre più emarginato il ruolo del Procuratore generale all’interno del giudizio civile di legittimità, mentre verrebbe lasciato agli interessi delle parti il compito di decidere la sorte del procedimento che le ha viste contrapposte fino a quella terza istanza, quando poi l'incentivo si risolve unicamente nel risparmio del contributo unificato. A fronte dell’avvio all'estinzione di quei processi nei quali, per le più svariate ragioni, l’interesse della difesa (non quello della parte) si è ormai completamente dissolto, sarebbe stato quanto mai opportuno contrapporre il coinvolgimento del procuratore generale attribuendogli la facoltà di richiedere la trattazione in camera consiglio a tutela pur sempre di un interesse pubblico quale è il rispetto del contraddittorio e la garanzia della difesa. Si è dubitato inoltre dell’effettiva efficacia deflattiva del rito accelerato, in quanto la possibilità che alla iniziale proposta di inammissibilità possa poi seguire una richiesta di camera di consiglio da parte del difensore, introduce un elemento di incertezza nel procedimento, con possibili riflessi negativi anche sull’organizzazione della Corte.
Al fine di limitare criticità e disfunzioni si è pertanto suggerito in primo luogo di far sì che la proposta formulata dal consigliere o dal presidente, benché sintetica, sia tale da affrontare in forma chiara tutti i temi fondamentali del ricorso, solo così potendo aspirare a svolgere una funzione persuasiva. Ove, poi, la proposta non venga accettata, sembra funzionale alle esigenze di speditezza e di economia processuale assicurare la coincidenza del consigliere o presidente che l’ha redatta con quello che sarà relatore nella camera di consiglio o, quanto meno, organizzare i ruoli in modo tale che egli faccia parte del collegio chiamato a pronunciarsi sul ricorso, ricorso che naturalmente sarà deciso tenendo conto anche delle argomentazione portate a sostegno dal difensore nella richiesta di decisione, sicchè potrà verificarsi (come già accadeva nel vigore del rito ex art. 375 c.p.c. avanti alla VI sezione) che il consigliere relatore, a fronte delle fondate osservazioni del difensore, modifichi l’opinione inizialmente espressa nella proposta.
D) Tra le principali novità introdotte dalla riforma vi è quella relativa alla revocazione delle sentenze passate in giudicato ma dichiarate contrarie alla Cedu (art. 391- quater c.p.c.), che è in realtà un mezzo di ricorso per cassazione (art. 362, ultimo comma c.p.c., dove è per l’appunto richiamato il successivo art. 391-quater c.p.c.) ed è soggetta al relativo procedimento.
La revocazione è sottoposta a due condizioni:
a) che sia stato pregiudicato un diritto di stato della persona (espressione relativamente alla quale sono in corso approfondimenti all’interno della Procura generale delle cassazione - inclusa tra i soggetti legittimati a proporre il ricorso - per verificare eventuali possibilità di ampliamento interpretativo della norma, ad esempio ricomprendendo nel concetto di “stato della persona” anche lo “stato” professionale);
b) che la parte lesa non sia stata già idoneamente indennizzata dalla Corte europea ai sensi dell’art. 41 della Convenzione.
Il ricorso deve essere proposto, ovviamente, nei confronti della controparte del giudizio in cui è stata pronunciata la sentenza revocanda, ma può spesso accadere che tale controparte non abbia partecipato al giudizio dinanzi alla Corte di Strasburgo, la cui pronuncia sarà tuttavia vincolante nel giudizio di revocazione. Per ovviare all’evidente rischio di violazione del diritto di difesa che ne deriverebbe, l’ultimo comma dell’art. 391-quater c.p.c. fa pertanto salvi i diritti dei terzi di buona fede che non abbiano partecipato al giudizio dinanzi alla Corte europea; ed è questo forse uno dei punti critici della nuova disciplina, potendo non sempre risultare agevole contemperare l’accoglimento della richiesta di revocazione con la salvezza dei diritti di chi, non essendo stato parte del giudizio dinanzi alla Corte europea, lo sia invece nel giudizio di revocazione.
Il procedimento in Cassazione è sempre svolto secondo il rito della pubblica udienza.
È stata preannunciata la sottoscrizione di un prossimo protocollo tra Procura Generale e Avvocatura Generale, per garantire alla Procura Generale di essere informata delle decisioni CEDU.
E) Del pari fortemente innovativo è il rinvio pregiudiziale introdotto dall’art. 363-bis c.p.c., un istituto di nomofilachia preventiva, volto anche a deflazionare il contenzioso ed a favorire la certezza del diritto vivente mediante la formazione anticipata di un autorevole orientamento giurisprudenziale che, altrimenti, in presenza di norme di nuovo conio, rischia di consolidarsi solo a molta distanza di tempo provocando nel frattempo molteplici contrasti.
Le condizioni del rinvio pregiudiziale di cui all’art. 363-bis c.p.c. sono:
a) la rilevanza della questione, espressa in termini di “necessarietà”;
b) la novità, con conseguente esclusione di quesiti su un acte eclairé;
c) la difficoltà interpretativa, con esclusione quindi dell’acte claire;
d) il rilievo generale derivante dalla probabilità del riproporsi della questione in altri “numerosi giudizi”.
Il giudice a quo ha il potere d’ufficio di valutare l’opportunità del rinvio, se ricorrano dette condizioni.
Lo stesso giudice ha però l’obbligo di motivare la relativa ordinanza, in particolare quanto alla condizione sub c), che richiede l’indicazione delle diverse interpretazioni possibili (non anche necessariamente di quella preferita).
Il procedimento è sospeso dal giorno in cui è depositata l’ordinanza, salvo il compimento degli atti urgenti e delle attività istruttorie non dipendenti dalla soluzione della questione oggetto del rinvio pregiudiziale.
Da segnalare l’introduzione tra le disposizioni di attuazione dell’art. 137-ter, che prescrive la pubblicità sul sito internet della Cassazione dei provvedimenti dei giudici di merito che abbiano disposto il rinvio pregiudiziale e dei relativi decreti del Presidente della Corte (oltre che dei ricorsi del Procuratore generale nell’interesse della legge), all’evidente scopo di consentire anche ad ogni altro giudice investito della medesima questione di attendere il responso della Cassazione o anche, eventualmente, di proporre a propria volta un quesito interpretativo pregiudiziale.
Entro 90 gg. (termine meramente ordinatorio) il presidente della Corte può egli stesso dichiarare con decreto la questione inammissibile oppure assegnarla alle sezioni unite (se la ritiene di massima di particolare importanza ex art. 374 c.p.c.) o ad una sezione semplice.
Non sembra che la Corte abbia poi la possibilità di ulteriormente valutare l’ammissibilità della questione che abbia superato il vaglio presidenziale, ma deve senz’altro deciderla nel merito, è da ritenere con sentenza.
È sempre prescritta la pubblica udienza, previa requisitoria scritta del PG ed eventuale deposito di “brevi memorie” delle parti entro il termine di cui all’art. 378 c.p.c.
Il principio di diritto enunciato dalla Corte è vincolante solo nel processo a quo, e tale rimane anche se il processo di estingue e viene poi nuovamente instaurato tra le stesse parti, secondo una regola che ricalca quella vigente nei giudizi di rinvio a seguito di cassazione. La decisione, invece, non fa stato ovviamente in altri e diversi giudizi, ove tuttavia varrà, come ogni altro principio di diritto fissato dalla cassazione, per la sua maggiore o minore efficacia persuasiva di precedente.
F) Per quanto riguarda i criteri di distribuzione dei ricorsi tra camera di consiglio e pubblica udienza, non vi sono significativi mutamenti rispetto a ciò che accadeva anteriormente alla riforma. Il criterio è sempre quello della particolare rilevanza della questione di diritto, formula che evoca – senza che tra le due espressioni possa cogliersi una sostanziale differenza - quella delle “questioni di massima di particolare importanza” utilizzata dall’articolo 374 c.p.c. per indicare uno dei casi in cui il ricorso può essere assegnato alle sezioni unite. La ragione per la quale un ricorso viene deviato dalla destinazione naturale ordinaria, che è la camera di consiglio, per essere assegnato alla pubblica udienza, non va ravvisata nella sua particolare complessità o nella quantità dei motivi che contiene, ma nella funzione nomofilattica della Corte, cui affidarsi allorché si è in presenza di questioni nuove la cui trattazione rende opportuno un dibattito più ampio con la partecipazione altresì della Procura Generale. Quando, poi, la novità della questione investe trasversalmente le competenze tabellari delle sezioni o quelle di più di una sezione della corte, la scelta è quella della pubblica udienza innanzi alle Sezioni Unite (cui per legge i ricorsi vanno altresì rimessi ex art. 374 c.p.c. in caso di contrasti). La destinazione alla camera di consiglio o alla pubblica udienza non preclude una successiva destinazione in senso contrario ogniqualvolta tale scelta si riveli ex post più congrua in relazione all’oggetto del singolo tanto più quando ad esempio sia stata destinata alla pubblica udienza una questione nuova e nelle more la questione sia stata decisa dalle sezioni unite o in altra pubblica udienza della stessa sezione.
Ciò appare senz’altro possibile, nonostante l’abrogazione dell’art. 380 - bis c.p.c. nella parte in cui prevedeva espressamente nel passaggio dalla sesta alle sezioni ordinarie la possibilità di rimettere alla pubblica udienza le questioni che invece erano state in origine trattate nella sesta sezione.
°°°°°°°°°°°°°°°°° A parte le considerazioni critiche cui si è fatto accenno, nel corso del seminario è stato osservato come l’insieme delle modifiche introdotte dalla riforma (in particolare l’eliminazione della sezione “filtro”; l’introduzione del procedimento per la decisione accelerata ex artt. 380 - bis c.p.c. e 380- bis 1 c.p.c. per i ricorsi inammissibili, improcedibili o manifestamente infondati; il rinvio pregiudiziale ex art. 363 - bis c.p.c. e la revocazione per contrarietà alla CEDU ex art. 391 quater) il legislatore ha mirato a risolvere i problemi del giudice di legittimità con un diverso assetto organizzativo della Cassazione, diverso assetto verso il quale sta convergendo, fin dall’emanazione del decreto delegato 149/2022, un impegno corale degli organi apicali e di tutte le sezioni, nonché del personale amministrativo della Corte. Un’oculata organizzazione delle sezioni, fondato su un rapporto sinergico fra presidente di sezione e consigliere delegato, e su un preventivo confronto in riunioni di sezione, in cui individuare i criteri generali da seguire nella formulazione delle proposte (con ciò mutuando prassi organizzative già positivamente diffuse negli uffici di merito) varrà tra l’altro a scongiurare o, comunque, a contrastare il rischio di dispersione di collegialità che si paventa come conseguenza del rito accelerato.
Le modifiche normative, inoltre, renderebbero particolarmente rilevante il ruolo proattivo della P.G. ex art. 363 c.p.c. tramite l’affermazione del principio di diritto nell’interesse della legge, per evitare che si trascinino per anni oscillazioni giurisprudenziali tali da pregiudicare la prevedibilità delle decisioni. Ed in tal senso è stata prospettata come urgente, nell’immediato, un’iniziativa della P.G. diretta a chiarire in che modo debba essere conformata la “nuova procura speciale” ex art. 380 – bis, terzo comma c.p.c. necessaria per chiedere la decisione, sostenendosi da alcuni che la norma intenda riferirsi soltanto ad una “diversa procura speciale”, conferibile al difensore già al momento dell’incarico per il giudizio di Cassazione, e da altri (considerate le conseguenze che possono derivare dalla non adesione alla proposta del consigliere delegato) che si tratti – come peraltro il termine “nuova” lascerebbe intendere - di procura da rilasciare successivamente alla comunicazione di tale proposta. La mancanza di chiarezza su questo punto potrebbe dar luogo a non auspicabili questioni preliminari idonee, in ipotesi, a determinare l’inammissibilità della richiesta di decisione. Sempre sul piano della buona organizzazione, tenuto conto che dall’area della decisione accelerata sono esclusi i ricorsi manifestamente fondati, è stata evidenziata l’opportunità che per essi siano creati canali decisori idonei ad evitare che chi ha evidenti ragioni per l’accoglimento dell’impugnazione venga soddisfatto in ritardo rispetto agli altri.


Si segnala che i resoconti citati, degli incontri già svolti, sono disponibili tra i file del Team “Riforma civile: per discuterne insieme” e sul sito di Magistratura Democratica, nella sezione dedicata ai seminari.
Nel resoconto di ciascun seminario è inserito il link per accedere alla registrazione.

02/03/2023

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