Su alcuni aspetti della riforma penale: per una nuova idea di risposta penale

Magistratura democratica

Su alcuni aspetti della riforma penale: per una nuova idea di risposta penale


L’entrata in vigore della riforma penale continua a suscitare reazioni molto accese, tanto nell’opinione pubblica, quanto tra gli operatori giudiziari. 


Prevalgono i toni allarmistici e sta affermandosi l’idea che la riforma indebolirà la risposta statuale contro il crimine, impedirà di arrestare pericolosi delinquenti e minerá la certezza della pena. Sotto questi profili le critiche investono, in particolare, due aspetti della riforma: l’ampliamento delle ipotesi in cui alcuni reati contro la persona e contro il patrimonio diventano perseguibili a querela di parte e l’introduzione nell’ordinamento di un catalogo di pene sostitutive, da irrogare in alternativa alla reclusione.


Crediamo che queste reazioni siano spesso condizionate da un approccio alla “questione penale” influenzato da alcune precomprensioni, che è forse ragionevole mettere ogni tanto in discussione.


Noi rimaniamo legati ad un’idea di diritto penale in cui la pena – ossia l’inflizione di una privazione di libertà al condannato – costituisce un “male” che si giustifica solo con la necessità di proteggere beni di rilievo costituzionale, in cui la risposta sanzionatoria deve essere calibrata sulla gravità del fatto di reato, sul rilievo del bene giuridico protetto dall’ordinamento e sull’intensità della offesa procurata dalla condotta delittuosa.


Per questo crediamo che l’estensione del regime di perseguibilità a querela di un rilevante numero di figure di reato non necessariamente ponga in discussione la “tenuta” del sistema penale.


Crediamo piuttosto che rimettere alla persona offesa la scelta sulla perseguibilità di un certo reato – quando essa ha ad oggetto un bene giuridico disponibile e, comunque, leso in modo non irreversibile – possa rispondere all’interesse della giustizia.


Si è censurato il fatto che, in tal modo, si impedisce l’arresto degli autori di reato. Questa critica, però, trascura il fatto che – là dove la persona offesa proponga querela (anche oralmente) – l’arresto è comunque consentito. E si trascura altresì il fatto che, in ogni caso, il processo penale, nel suo ordinario svolgimento, dovrebbe essere celebrato con un imputato che si presenta davanti ai tribunali in stato di libertà.


Si è censurato – per alcune figure di reato in particolare – il fatto che il bene giuridico protetto imporrebbe necessariamente la perseguibilità d’ufficio dei comportamenti criminali.


Tuttavia, la concreta esperienza giudiziaria evidenzia che – nel perimetro di figure di reato gravissime in astratto –  talora si manifestano fatti sociali che, pur illeciti, sono di gravità complessivamente modesta (tale da rendere non irragionevole rimettere la scelta sulla perseguibilità del reato alla persona offesa): vi sono sequestri di persona di gravità e consistenza indiscutibile; ma ve ne sono altri che hanno ad oggetto episodi di privazione della libertà personale non connotati da violenza e protrattisi per lassi di tempo comunque circoscritti a pochi minuti; vi sono violazioni di domicilio (magari in ambito familiare o condominiale) che – apparentemente preoccupanti nell’immediatezza del fatto – vedono poi i protagonisti della vicenda raggiungere una ricomposizione dei rapporti che rende non necessaria (e forse nemmeno comprensibile) una risposta penale.


E gli esempi potrebbero moltiplicarsi…


In questi secondi casi, in cui la gravità astratta del titolo di reato non rispecchia appieno il concreto (modesto) disvalore del fatto sociale verificatosi, il fatto che l’ordinamento consenta alla persona offesa di decidere se perseguire il proprio sequestratore (o l’autore della violazione di domicilio) e che, in modo indiretto, promuova, percorsi di riconciliazione tra autore e vittima di reato non ci sembra un attentato alla sicurezza pubblica. Anzi.


Si è però censurato il fatto che la riforma espone le persone offese a possibili pressioni da parte degli autori di reato, al fine di indurle a non proporre querela.


È un’obiezione che – soprattutto in contesti ad alta densità criminale – appare seria e che non può essere trascurata. Si tratta di una critica che, però, non necessariamente può essere ascritta al legislatore delegato (posto che già in precedenza vi erano figure di reato perseguibili a querela di parte potenzialmente esposte a “pressioni indebite” ad opera degli autori di reato).


Si tratta di una critica che, ovviamente, il legislatore (il Parlamento – nella sua discrezionalità politica – o il Governo, che può adottare decreti correttivi della riforma penale) potrà eventualmente considerare per migliorare gli aspetti della riforma che meritano un marginale ripensamento.


In definitiva: a fronte di contrapposte oscillazioni del pendolo della penalità (chi vuole più sicurezza e più carcere da un lato; chi vuole una depenalizzazione, dall’altro lato), a noi sembra che – “per non parlare d’altro” e per considerare le riforme possibili – si debba considerare l’intervento riformatore come un intervento che, pur migliorabile, è da salutare positivamente.


L’intervento riformatore – nella parte in cui interviene sul regime di perseguibilità a querela – ci sembra indirizzare l’ordinamento penale verso la possibilità di modulare la risposta penale in misura coerente con la concreta gravità del fatto. L’ampliamento del regime di perseguibilità a querela, peraltro, indirizza gli attori delle vicende processuali verso percorsi di ricomposizione e riconciliazione, promuovendo la possibilità di assicurare alle persone offese un più celere risarcimento del danno e  incentivando gli autori di reato a fuoriuscire dal circuito penale riconoscendo le ragioni delle vittime di reati che offendono beni – in tutto o in parte – disponibili.


Modulare la risposta penale – laddove ciò è ragionevole e non priva di tutela diritti indisponibili – e promuovere la ricomposizione e il risarcimento del danno a noi sembra un buon inizio verso una nuova penalità.

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Molte altre critiche si concentrano sulla riforma del sistema sanzionatorio. Si sostiene che l’ampliamento dei casi di applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto; l’ampliamento delle ipotesi di possibile ammissione alla messa alla prova; la riforma del sistema sanzionatorio, con l’introduzione delle pene sostitutive, finirebbero con il banalizzare la sanzione penale e indebolire la risposta dello Stato alla criminalità.


Ci permettiamo di pensare che non sia così.


Rimaniamo legati all’idea che la pena si giustifichi non solo sotto il profilo della retribuzione, ma anche sotto il profilo della spinta alla risocializzazione: i profili di «reintegrazione, intimidazione, difesa sociale (…) hanno un fondamento costituzionale»; tuttavia, la considerazione delle altre funzioni  della pena non è di portata «tale da autorizzare il pregiudizio della finalità rieducativa espressamente consacrata dalla Costituzione nel contesto dell'istituto della pena. Se la finalizzazione venisse  orientata verso quei diversi caratteri, anziché al principio rieducativo, si correrebbe il rischio di  strumentalizzare l'individuo per fini generali di politica criminale (prevenzione generale) o di privilegiare la soddisfazione di bisogni collettivi di stabilità e sicurezza (difesa sociale), sacrificando il singolo attraverso l'esemplarità della sanzione. È per questo che, in uno Stato evoluto, la finalità rieducativa non può essere ritenuta estranea alla legittimazione e alla funzione stesse della pena» (Corte costituzionale, sentenza n. 313 del 1990).


La riforma allargando la possibilità di applicare l’istituto della particolare tenuità del fatto amplia la possibilità che lo stato rinunci all’imposizione di una sanzione per fatti che – in concreto – risultano di gravità estremamente modesta: la causa di non punibilità in questione «persegue finalità connesse ai principi di proporzione ed extrema ratio (…). Lo scopo primario è quello di espungere dal circuito penale fatti marginali che non mostrano bisogno di pena e, dunque, neppure la necessità di impegnare i complessi meccanismi del processo» [Sez. Un., n. 13681 del 25/02/2016]. E – si badi – non è una rinuncia indiscriminata all’applicazione del diritto penale; si tratta piuttosto di una valutazione affidata, caso per caso, all’esercizio responsabile della giurisdizione (amministrata nel contraddittorio delle parti, pubblicamente e in modo motivato).


Analoga è la riflessione per l’estensione della possibilità di definizioni alternative del procedimento con messa alla prova. Anche sotto tale profilo, la riforma promuove percorsi anticipati di risocializzazione, nel cui contesto si possono anche innestare percorsi di ricomposizione con le vittime di reato o, quantomeno, di risarcimento del danno.


Ancora: si censura l’introduzione nel nostro ordinamento di pene sostitutive della pena detentiva, denunciando il fatto che – con esse – si rinuncia alla certezza della pena, si diminuisce il livello di risposta penale e si banalizza la sanzione.


Crediamo – al contrario – che la riforma ci proponga sfide che dobbiamo essere in grado di cogliere e ci richiami ad obiettivi che abbiamo il dovere di realizzare.


Tuttavia, al riguardo, non si può trascurare che l’assenza di serie alternative alla sanzione detentiva oggi ci consegna due risultati: da un lato, oggi abbiamo carceri sovraffollate, in cui è molto difficile assicurare la predisposizione di efficaci percorsi di “reinserimento sociale”, che “restituiscono” alla società persone che – in misura statisticamente non trascurabile – torneranno a delinquere; dall’altro lato, abbiamo alcune decine di migliaia di persone che – essendo state condannate a pene detentive brevi in astratto eseguibili – sono in attesa di vedere esaminate da tribunali di sorveglianza sempre più oberati le loro richieste di accesso alle misure alternative alla detenzione (si allude al fenomeno dei c.d. liberi sospesi).


La riforma si propone di invertire questa traiettoria, re-indirizzando l’esecuzione della pena verso uno dei principali obiettivi che la Costituzione assegna al sistema penale.


Le pene sostitutive intendono – schematicamente – perseguire un triplice obiettivo: (i) assicurare che la risposta sanzionatoria sia modulata sulla gravità del fatto e sulla c.d. pericolosità sociale dell’autore di reato; (ii) assicurare l’effettività del momento sanzionatorio (posto che le pene sostitutive intendono prevenire – con meccanismi processuali meritevoli di future riflessioni – il fenomeno dei c.d. liberi sospesi); (iii) assicurare l’effettività e l’anticipazione dell’intervento teso al “reinserimento sociale”.


Si tratta di obiettivi ambiziosi ed impegnativi, che la riforma consegna alla responsabilità di tutti gli operatori giudiziari: funzionari dell’amministrazione penitenziaria, magistrati e avvocati. Soprattutto, è indispensabile che vengano assicurate risorse adeguate agli Uffici di esecuzione penale esterna, chiamati a svolgere un ruolo cruciale e destinati ad incidere in modo determinante sul successo – o il fallimento – di questo ambizioso progetto.


Ciascun operatore coinvolto nel sistema penale sarà chiamato ad esercitare responsabilmente la propria funzione per avvicinare l’esecuzione penale al “volto costituzionale della pena” (Corte costituzionale, sentenza n, 50 del 1980) che la Carta ci chiede esplicitamente di ricercare.


Nessuno si senta escluso.

23/01/2023

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