La guerra e le parole

Catanzaro: Camere penali e Associazione nazionale magistrati, rivedere toni e argomenti a favore di rispettose e trasparenti occasioni di confronto

Premessa.

Le guerre di religione sono sempre state molto poco guerre di fedi e molto guerre di potere. Anche il mero sospetto che il duro confronto fra magistratura associata catanzarese e Camere Penali regionali possa assumere posture da guerra di religione dovrebbe, dunque, indurre i contendenti a rivedere toni ed argomenti in favore di reali, anche appassionate, ma soprattutto rispettose e trasparenti occasioni di confronto.

Adesso che, complici forse le temperature oramai estive, gli animi parrebbero distesi, potrebbe essere il momento per tentare una sintesi e magari persino comprendersi reciprocamente.

Si contrappongono questioni di portata generale, ampiamente dissodate da pubblicistica e dottrina e, nel contempo, altre che, pur concernenti specifiche vicende locali, ben si collocano nel contesto delle prime. Si proverà ad esaminarle offrendo nulla di più che il punto di vista di un magistrato. Uno come tanti, che esercita le funzioni in questo territorio da ormai 33 anni (età simbolica), con intatta passione e compassione, cumulando molte più amarezze che gratificazioni.

Con l’avvertenza che la matassa è ormai talmente ingarbugliata, come avrebbe detto Camilleri, che occorrerà qualche strappo per venirne a capo. Accettando il rischio, sempre presente nella ricerca di brandelli di verità fra i meandri delle contrapposte convenienze, di urtare più d’una suscettibilità

La guerra di comunicati.

La “guerra” fra magistratura catanzarese e Camere Penali finora sembra essersi snodata in quattro round.

Il documento più risalente dovrebbe essere la lettera aperta che l’allora Presidente della Giunta nazionale delle U.C.P.I. ha indirizzato all’allora Presidente dell’A.N.M., in data 24 gennaio 2021, sollecitandolo ad esprimere vicinanza e solidarietà ai giudici del distretto di Catanzaro a fronte di un’intervista rilasciata dall’allora Procuratore distrettuale al più importante quotidiano nazionale. Intervista che sarebbe stata caratterizzata da “improvvide e gravi dichiarazioni” volte a spiegare “il sistematico ridimensionamento quantitativo e qualitativo delle ipotesi accusatorie” dal medesimo formulate in molti giudizi con l’esistenza “collusioni mafiose nella giurisdizione” [1].

Questo il prologo, due anni e mezzo dopo il secondo round.

Allorché il Coordinamento delle Camere Penali Calabresi delibera l’astensione dalle udienze per il giorno 20 luglio 2023 con un comunicato dai toni durissimi. Si afferma che “è oramai quotidiana la concentrazione mediatica rivolta esclusivamente alle cosiddette maxi-operazioni distrettuali calabresi, veri e propri bastimenti in cui vengono ‘ammassati’ esseri umani” e che “la nostra regione è oramai divenuta la Calabria giudiziaria delle centinaia di ordini di cattura eseguiti nottetempo, nell’ambito di quei maxi-processi -meglio definibili processi straordinari in cui vengono concentrati presunti innocenti in forza di una interpretazione giuridicamente eccentrica, da parte della pubblica accusa, dell’istituto della connessione, che rende tutto (mafiosamente e non teleologicamente) connesso”, denunciando una “presunzione di colpevolezza” che colpirebbe gli “ammassati in questi processi extra-ordinem, svolti -non più in aule di giustizia ma- in aule-bunker”. Una deprecabile “spettacolarizzazione” che avrebbe “raggiunto la più elevata e inimmaginabile vetta con la recente diretta televisiva delle richieste di condanna nel procedimento denominato ‘Rinascita Scott’, a reti mediatiche unificate per garantirne l’ascolto da talk-show di prima serata”.

A queste, che sono denunce di fenomeni giudiziari e relativi risvolti mediatici trascendenti, in verità, i confini calabri, si aggiungono censure più specificamente rivolte al distretto catanzarese: gli indagati ed imputati sottoposti a misura cautelare personale sarebbero stati costretti ad “un’anticamera di molti mesi” prima che i loro ricorsi fossero trattati dal Tribunale del riesame, mentre, per contro, “sino a poco tempo addietro”, gli appelli cautelari della Procura distrettuale sarebbero stati “fissati, trattati e decisi con una celerità che sarebbe stata ammirevole se non avesse impattato con l’ingiustificato e incomprensibile trattamento differenziato dedicato alle istanze di libertà dei presunti innocenti”. Trattamento di favore che sarebbe cessato solo dopo le vibrate proteste delle stesse CP. Le quali, infine, denunciano quanto accertato in “un’attività di monitoraggio” da esse svolto sui procedimenti di riparazione per ingiusta detenzione trattati dalla locale Corte d’Appello: la scandalosa “giacenza” di istanze di riparazioni risalenti al 2021 ed il contestuale, singolare, dato relativo alle riparazioni riconosciute nel 2022: appena ventidue. Traendone la deduzione che questo “improvviso virtuosismo”, che avrebbe consentito al distretto catanzarese di non essere più “fanalino di coda”, sarebbe stato ottenuto proprio con lo stratagemma di rallentare drasticamente la definizione delle relative procedure.

Comunicato cui reagiva la Giunta Esecutiva Sezionale dell’A.N.M. di Catanzaro dicendosi “attonita” dal tenore dello stesso, risolventesi in un “ennesimo calunnioso e volgare attacco al lavoro della magistratura, accusata, con un linguaggio evocativo di fatti storici abominevoli, di ammassare esseri umani su bastimenti” ed in un contestuale attacco alla libertà di stampa ed “invocando l’intervento del presidente del Consiglio Superiore della Magistratura [rectius, del  Presidente della Repubblica] a tutela dei magistrati del Distretto”.

In questo rilassato contesto interveniva, nei primissimi giorni di marzo del 2024, l’assoluzione, ad opera della Corte d’Appello di Catanzaro, di un noto penalista calabrese dall’accusa di corruzione in atti giudiziari per la quale, in primo grado, aveva subito una condanna a sei anni di reclusione. Assoluzione che dava il via al terzo round, concretatosi in un commento dalle Camere Penali connotato da un aplomb analogo a quello dei precedenti[2] , con cui si denunciavano “i quattro anni di calvario trascorsi nell’attesa che la macchina infernale del processo all’innocente si inceppasse finalmente e si svelasse insulsa, indecifrabile, ciecamente violenta. Vergognosa in una parola”. Anni di detenzione resi possibili solo dalla “miseria etica dal pregiudizio, dal fanatismo belligerante che ottenebra menti devastate dal cancro del sospetto”. Concludendo in una declinazione d’imperativi: “Non dimentichiamo, non possiamo dimenticare. Non dimenticheremo”.

Questa volta a replicare è La Giunta Esecutiva Nazionale dell’ANM, che interviene il 3 marzo 2024 esprimendo solidarietà ai magistrati di Catanzaro per quelle che definisce “invettive livorose che travisano quella che è la fisiologia del processo (qual è un’assoluzione in appello che ribalta il verdetto di primo grado) con la patologia … non esenti da toni vagamente intimidatori”.

Dopo una fase di “agitazione” nel periodo estivo, le Camere Penali calabresi, in data 11\9\2024, deliberano una “astensione a staffetta” delle singole articolazioni provinciali, con inizio nelle giornate dal 16 al 20 settembre e conclusione in quelle dal 10 al 12 dicembre. Abbandonando finalmente i toni da wrestling, ma senza rinunciare alla radicalità delle rivendicazioni (a dimostrazione dell’inutilità dei primi). Anche l’analisi è più approfondita. Si parte dalla grave inadeguatezza degli organici del Tribunale di Catanzaro, sulla quale si innesta l’apporto destabilizzante dei maxi processi, che determinano una semi paralisi della Giustizia penale ordinaria per il drenaggio di risorse che impongono; si denuncia il grave fenomeno della “delocalizzazione dei processi speciali, sottratti alla loro sede naturale, concentrati nell’Area Attrezzata per Processi di Massa”; si lamenta la pressoché totale assenza di risposte da parte della Politica e delle autorità Giudiziarie.

Un avvocato eletto nel Consiglio Giudiziario della locale Corte d’Appello riprende il discorso -e siamo al quarto ed ultimo round- con un articolo sul quotidiano “Il riformista” del 7 aprile 2025[3]. L’incipit dice tutto: “Un Distretto in cui, più che altrove, la privazione della libertà è stata il frutto di valutazioni approssimative, dell’impiego della carcerazione preventiva come prima ratio e, soprattutto, dell’accondiscendenza di una magistratura giudicante, incapace di porre un argine a un meccanismo patologico di regolazione della fase cautelare voluto dall’Ufficio requirente. Un sovvertimento ideologico e culturale caratterizzato da una concezione illiberale del rapporto tra autorità e libertà, nella quale l’in dubio pro reo è mutato nell’in dubio pro republica”. Ai già esposti argomenti se ne aggiungeva un altro: quello dell’ “allontanamento”, sotto l’egida dell’ex Procuratore distrettuale, di alcuni magistrati del distretto resisi colpevoli di avere ostacolato la deriva inquisitoria che ne avrebbe travolto gli uffici. Poi di nuovo l’illegittima “corsia preferenziale” di cui, per un periodo, avrebbero goduto le “impugnazioni del requirente” presso il locale Tribunale del Riesame e infine la denuncia dello spreco di denaro pubblico per la realizzazione dell’aula bunker di Lamezia Terme. Necessaria al “modello giudiziario Catanzarese”, ma poi divenuta inagibile per l’infelice ubicazione con spostamento dei dibattimenti dei maxiprocessi nella lontanissima Catania.

Inevitabilmente, retorica chiama retorica ed, ai toni da Grand Guignol dell’autore dell’articolo, l’ANM di Catanzaro contrappone un quadro elegiaco a trecentosessanta gradi, in cui il “vero metodo Catanzaro” è così descritto: “La Giurisdizione calabrese è retta da Magistrati che giungono nel Distretto di Catanzaro da tutte le parti d’Italia e che mettono al servizio dei calabresi il loro fresco entusiasmo e la loro vivace preparazione, forgiata da lunghi anni di studio. I Giudici del Distretto di Catanzaro chinano il capo solo per studiare i fascicoli sulle loro scrivanie e nella solitudine delle loro stanze. Nessun condizionamento è mai intervenuto da alcuno. I Pubblici Ministeri del Distretto di Catanzaro svolgono la loro funzione con dedizione e nell’impegno esclusivo della ricerca della verità: nessuno intende mietere vittime civili. Essi agiscono nel rispetto dei diritti di tutti i soggetti coinvolti e in una condizione di piena parità processuale con le altre parti”.

Quest’ultimo e combattutissimo Round si concludeva con un’intervista del Presidente della sezione di Catanzaro dell’ANM alla testata on line “La Magistratura.it” del 29 aprile 2025, cui prontamente replicavano le Camere Penali Calabresi, con una “lettera aperta” (genere letterario evidentemente tornato di gran moda) del 13 maggio scorso.

I numeri.

Per tentare di sbrogliare la matassa la prima cosa è cimentarsi sui numeri, partendo ovviamente da numeri verificabili.

E tali certamente non sono quelli indicati singolarmente ad personam nell’ultimo intervento dell’avvocatura appena citato, ovvero riferiti ai procedimenti che sarebbero stati coordinati nel periodo febbraio 2017- settembre 2023 dall’allora Procuratore della Repubblica di Catanzaro e si sarebbero conclusi con una sentenza di proscioglimento, almeno di primo grado, in favore di persona già sottoposta a misura cautelare personale.

Intendiamoci, nulla vieta una tale indagine statistica unipersonale, ma trattandosi di dati non evincibili da quanto è pubblico e consultabile e trattandosi di un dato decisamente abnorme rispetto alle medie nazionali e locali certificate (il 37,4% di arrestati poi assolti) un elementare dovere di lealtà e correttezza  avrebbe dovuto imporre: a) di specificare in che modo siano stati raccolti quei dati; b) di specificare gli estremi del bacino statistico di riferimento (ad es., indicando i numeri di registro notizie di reato dei relativi procedimenti), in modo da consentire ad eventuali interessati o controinteressati di verificare la fondatezza di quanto affermato.

In mancanza di ciò -e v’è dell’ironia nel fatto che a rilevarlo debba essere chi scrive- rimane la sgradevolezza del gesto e la sua irrilevanza ai fini che qui si propongono.

Eppure, dati obiettivi ed utili esistono e sono evincibili proprio dalla relazione ex L. 16 aprile 2015, n. 47 del Ministro della Giustizia. Prima di esaminarli, però, s’impone l’ineleganza di un’autocitazione.

E’ evidente, come ripetutamente sottolineato dal Presidente dell’ANM catanzarese, che nel sostrato delle appassionate accuse delle Camere Penali calabresi si muove la fremente tensione verso l’obiettivo oramai alle viste: la “riforma finale” della magistratura che il Ministro Nordio sta per ottenere. Occorre, quindi, rimuovere un inganno, quello dei 30.000 indennizzati per errori giudiziari in 30 anni sempre sventolato come bandiera, ma senza comparazione alcuna.

Sorvolando sul particolare che non è mai detto come sia stato accertato questo numero[4], occorre infatti chiedersi con cosa esso debba essere comparato.

Molto banalmente, per poter dire se sia davvero un dato scandaloso occorrerebbe sapere quanti sono stati i procedimenti penali contro noti avviati in tutte le Procure d’Italia nello stesso trentennio. Purtroppo, però, “sui dati delle nuove iscrizioni penali annuali c’è una grande confusione”.

I soli datti attendibili al riguardo si possono rinvenire sul sito del Ministero della Giustizia per gli anni dal 2010 al 2012 e sul sito dell’ISTAT per il 2014. Il totale dei procedimenti contro noti iscritti in questo quadriennio è di 6.495.348. E poiché è banale osservare che le misure cautelari esistono in ogni paese del mondo e non può stupire che siano più frequenti in un paese in cui operano tre fra le più potenti organizzazioni criminali del globo, dovrebbe colpire favorevolmente che quei supposti 30 mila indennizzati, rapportati a questo solo quadriennio, costituiscono poco meno dello 0,5%. Se poi si volesse tentare un rapporto percentuale sull’intero periodo, ipotizzando, “ad esempio, 1.500.000 nuove iscrizioni all’anno (una media al ribasso rispetto al quadriennio indicato), in 30 anni sarebbero 45.000.000 di nuovi procedimenti penali avviati. Trentamila indennizzati, sarebbero allora pari ad appena lo 0,065%”[5]

Così ridimensionato il quadro dipinto dai fautori della “riforma finale”, conviene misurarsi sui numeri reali concernenti la nostra regione.

Il primo rilievo da fare è che il dato delle 22 ordinanze di accoglimento emesse dalla Corte d’Appello di Catanzaro nel 2022, che tanto ha accalorato le CP, al punto da dichiararlo ottenuto grazie al “sostanziale blocco delle trattazioni delle istanze di ingiusta detenzione”, è, in realtà, un dato del tutto neutro. Essendo documentalmente provato che in quell’anno non vi è stato alcun blocco o rallentamento delle definizioni. Fonte sempre la relazione ministeriale: la media delle definizioni annue a Catanzaro negli anni 2018, 2019, 2020, 2021 e 2023 è di 84,8 e le definizioni nel 2022 sono 69. Peraltro, nel 2023 vi è stato un picco anomalo di ben 138 definizioni che altera la media. Scorporando quest’ultimo anno, la media degli altri quattro sarebbe di 71,5. Rispetto al quale le 69 definizioni del 2022 sono perfettamente allineate.

Proviamo allora ad essere più rigorosi e anche più seri[6].

Il primo dato concerne i flussi procedimenti per ingiusta detenzione definiti in Calabria nel periodo 2018-2023: Catanzaro 493 ovvero il 66% circa delle domande pervenute, Reggio Calabria 829 ovvero il 105,4% delle domande pervenute[7]. Vi è, quindi, un evidente divario di produttività. Un dato che meriterebbe un’analisi e può avere molte spiegazioni, sul quale ci si potrebbe confrontare anche deponendo le armi.

Tuttavia, ve ne sono altri più allarmanti: quelli relativi alle domande di riparazione per ingiusta detenzione ed all’entità dei relativi importi corrisposti. Per meglio apprezzare i quali, è opportuno considerare prima i dati della popolazione.

Quella nazionale, nel censimento del 2023, è di circa 59 milioni di abitanti. In Calabria sono appena 1.846.610 ovvero poco più del 3%. Per ragioni che meglio si intenderanno, è bene considerare anche la popolazione delle regioni in cui sono radicate le altre due maggiori organizzazioni mafiose: Sicilia, 4.814.016 abitanti ovvero circa l’8,15% del totale nazionale; Campania, 5.609.536 abitanti ovvero circa il 9,5% del totale nazionale. Le tre regioni insieme 12.270.162 abitanti ovvero circa il 20,7%.

Tornando alle riparazioni per ingiusta detenzione nel quinquennio 2018-23, questi i numeri delle domande di riparazione:

Totale Nazionale: 7.469,

Totale Calabria: 1.525 (di cui 739 Catanzaro e 786 Reggio C.) ovvero il 20,4% del totale nazionale (a fronte del 3% di abitanti),

Totale Sicilia: 1.174 ovvero 15,7% del totale nazionale (a fronte del 8,15% di abitanti),

Totale Campania: 1.211 ovvero il 16,2% del totale nazionale (a fronte del 9,5% di abitanti),

Le tre regioni insieme il 52,3% del totale nazionale (a fronte del 20,7% di abitanti).

Questi, invece, i numeri relativi alle entità degli importi erogati[8] nel detto periodo 2018-2023:

totale nazionale, € 200.547.821,

Calabria, € 69.741.605 (di cui € 24.678.461 Catanzaro e € 45.063.144 RC) pari al 34,7% (a fronte del 3% di abitanti),

Sicilia, 1.952.985+12.526.655+19.668.375 (i tre distretti) = € 34.148.015 pari al 17%, (a fronte del 8,15% di abitanti),

Campania: 13.979.402 + 5.081859 (i due distretti) = € 19.031.261 pari allo 9,48% (a fronte del 9,5% di abitanti),

Le tre regioni insieme il 61,18% del totale (a fronte del 20,7% di abitanti).

Questi sono i dati su cui occorrerebbe aprire un confronto ed è innegabile che siano drammatici[9].

Come pure è innegabile che le mafie esistano e che il contrasto alle stesse non sia, come suol dirsi, un pranzo di gala e tuttavia liquidare la riflessione e il confronto con constatazioni del genere o analoghe, equivalenti a poco più di un’alzata di spalle, non è accettabile.

In primo luogo, per la magistratura. Proprio quella magistratura che qui opera con tutte le difficoltà e i sacrifici che il presidente dell’ANM ha ben ricordato e che non può e non deve ritrarsi indignata quando i numeri dicono che per ogni cittadino calabrese il rischio di patire un giorno di ingiusta detenzione è dieci volte più alto (3% di abitanti, 34,7% di risarcimenti erogati) di quello che corre un non calabrese.

Il processo penale, la gogna, la giustizia.

  1. I “maxi”

Come si diceva, gli argomenti di fondo sono ampiamente dissodati da decenni, ma è sempre bene ribadire alcune lapalissiane verità che continuano ad essere bistrattate.

La prima delle quali è che, se l’equa riparazione per ingiusta detenzione è istituzionalmente definita “indennizzo da atto lecito”, è perché: 1) a fronte di gravi reati e gravi pericoli (le famose “esigenze cautelari”) indicati dalle norme, in tutti i paesi del mondo è prevista la possibilità di privare l’indagato della libertà anche prima di una sentenza di condanna passata in giudicato; 2) anche in questi casi, come in tutti gli altri, il processo penale potendo poi concludersi o con una condanna o con una assoluzione. E’, quindi, un rischio non eliminabile e non eliminato in nessun paese al mondo.

Più interessante ed utile sarebbe isolare le sole ipotesi di c.d. “ingiustizia formale” di cui all’art.314, 2° comma c.p.c. ovvero quelle in cui “la custodia cautelare sia stata applicata illegittimamente, cioè senza che ricorressero le condizioni di applicabilità previste dagli artt. 273 e 280 c.p.p.”.  Stupisce che le Camere Penali Calabresi non vi abbiano pensato. Se lo avessero fatto, si sarebbero avvedute che il dato nazionale delle riparazioni per ingiustizia formale della detenzione è del 27,2% del totale (relazione citata, pg. 35). Quello del distretto catanzarese è del 23,5%, quello del distretto reggino del 22,2%. Questo il dato relativo solo al 2023. Uno sforzo relativo di approfondimento, magari comune, potrebbe consentire una ricostruzione della serie storica. Al momento, non rimane che constatare che i dati non arridono alle loro tesi[10].

Meglio che il ragionamento parta, allora, da una riflessione d’ordine teorico: quella relativa ai maxiprocessi. Nella quasi totalità processi contro la criminalità organizzata e nella quasi totalità avviati con imputati/indagati in vinculis (laddove il “quasi” è una forma di scaramantico pudore).

E’ puro buon senso riconoscere che in un processo con 100, 200 o 300 imputati i rischi di errori nella valutazione degli elementi di prova si accrescano geometricamente.

Luigi Ferrajoli ne evidenzia anche quelli per la “comprensione equitativa della singolarità di ciascun caso” [11][1], ricordando che l’equità “non consiste in una deroga o in un’eccezione o in una correzione della legge, bensì in una specifica dimensione conoscitiva che deve essere presente in ogni giudizio” e che “nella comprensione e nella valutazione delle circostanze singolari e irripetibili che fanno di ciascun fatto, di ciascun caso sottoposto al giudizio, un fatto e un caso irriducibilmente diversi da qualunque altro, pur se sussumibili – per esempio il furto di una mela come il furto di un diamante – nella medesima nozione legale. Giacché ogni fatto è diverso da qualunque altro, e il giudice, e ancor prima il pubblico ministero, non hanno di fronte le figure di reato in astratto, ma i fatti in concreto, e non possono quindi sottrarsi al dovere della comprensione equitativa dei loro specifici e irripetibili connotati”.  Una dimensione, quella equitativa, “pesantemente compromessa nei tanti maxi-processi per reati associativi, talora con centinaia di imputati e decine di imputazioni che impediscono valutazioni approfondite e differenziate delle accuse addebitate a ciascuno degli imputati. Nello stesso modo in cui i fatti denominati dal medesimo nomen juris sono tutti diversi tra loro, anche il grado di colpevolezza e prima ancora di partecipazione di ciascun imputato a un’associazione criminale è diverso da quello degli altri e meriterebbe quindi una valutazione specifica”. Il grande filosofo del diritto pone così una questione fondamentale troppo spesso ignorata dalla magistratura.

Alla quale se ne intende aggiungere un’altra, tratta dalla comune esperienza di chiunque abbia svolto le funzioni di pubblico ministero: è ben vero che le mafie sono organizzazioni ramificate, spesso numericamente poderose e dedite alla commissione di una serie indefinita di delitti, ma è altrettanto vero che i “maxi” nascono da informative di polizia giudiziaria, che pervengono sulle scrivanie dei p.m., spesso dopo interlocuzioni informali e poi si sviluppano ed eventualmente ampliano quando, iniziato il procedimento, quelle interlocuzioni si formalizzano secondo le regole della procedura. La prassi è che la polizia giudiziaria tenda a dilatare le dimensioni delle indagini e, quindi, dei successivi processi. Per diverse ragioni, non ultima la notorietà che queste indagini danno a chi le conduce e le possibilità di carriera che esse schiudono. Rispetto a questa tendenza i magistrati inquirenti possono scegliere se assumere un atteggiamento accondiscendente, remissivo o rigorosamente regolativo. Sono scelte connesse all’idea che si ha del proprio ruolo costituzionale e non saremmo sinceri se non ammettessimo che anche per questi magistrati notorietà e connesse opportunità lavorative discendono dalla conduzione di uno o più di questi “maxi”.

Un’altra notazione si potrebbe aggiungere. I veri pericoli per l’indipendenza non vengono dalla vituperata unicità delle “carriere” della magistratura e quindi non sono corsi dai giudici rispetto all’operato dei loro colleghi, quanto piuttosto dall’impronta che è data al processo penale dalla polizia giudiziaria, Giano bifronte, che da un lato è diretta dal pubblico ministero, ma dall’altra è gerarchicamente subordinata a vertici che fanno capo al potere esecutivo.

Insomma, sebbene le mafie indubbiamente esistano, vi è poco di naturale della proliferazione dei maxiprocessi e molto di (latamente e meno latamente) politico. E, tanto più di fronte al principio giurisprudenziale che consente di ritenere la prova dell’esistenza di un’associazione mafiosa, definitivamente acquisita in un processo, automaticamente ricevibile in un altro, non è agevole comprendere perché nuove azioni giudiziarie nei confronti di capi e componenti di quella stessa associazione non possano essere condotte, per dire, con sei processi da 50 imputati l’uno anziché con uno solo di 300 imputati.

  • La gogna e il medium.

E’ sostanzialmente inevitabile che questo genere di procedimenti sia accompagnato da grande risonanza mediatica, ma i magistrati ben potrebbero, anzi dovrebbero evitare di aggiungere risonanza a risonanza e sottrarsi attentamente ad ogni genere di passerella. Sottrarsi soprattutto all’abbraccio interessato degli operatori mediatici, a quella sorta di perniciosa simbiosi che consente ai primi di delocalizzare la sorte dei processi penali condotti dalle aule giudiziarie agli schermi di TV ed alle pagine di giornali ed ai secondi d’ignorare l’arte del mestiere e la dura gavetta che comporta, appoggiando comodamente le proprie carriere alla condiscendenza verso il magistrato più loquace e vanaglorioso.

Eppure, in questo paese abbiamo avuto giornalisti come Giuseppe (“Joe”) Marrazzo, Giorgio Bocca o Enzo Biagi, capaci di scovare le notizie e rivelarle, spesso anche agli stessi p.m. e giudici. Eppure, abbiamo avuto magistrati capaci di indagare e processare e far condannare la cupola della mafia siciliana ed i vertici della P2, senza aver mai avuto bisogno di appoggiarsi ad un giornalista anzi rifuggendo con rigore ogni narrazione mediatica.

La piccola “guerra” che qui si narra ha avuto inizio, come detto, con l’intervista di un noto Procuratore, ma già sin da allora una parte della magistratura ha formulato questa pubblica riflessione: “Non crediamo che la comunicazione dei Procuratori della Repubblica possa spingersi fino al punto di lasciare intendere che essi siano gli unici depositari della verità, e di evocare l’immagine del giudice che si discosti dalle ipotesi accusatorie come nemico o colluso. Con un tale agire, il Pubblico Ministero dismette il suo ruolo di primo tutore delle garanzie e dei diritti costituzionali – a partire dal principio di non colpevolezza – e assume quello di parte interessata solo al conseguimento del risultato, lontano dalla cultura della giurisdizione e dall’attenzione all’accertamento conseguito nel processo”[12]. E ancora sia consentita una seconda caduta di stile[13], ma l’argomento forse lo merita: non è accettabile che un qualsiasi processo, maxi o mini che sia, debutti con un’intervista in prima serata dell’inquirente che ha diretto le relative indagini, nel corso della quale egli spieghi, addirittura con messa in onda di prove video ed audio, le ragioni della colpevolezza dei relativi imputati. Ed il consenso di popolo che può accompagnare il sottostante processo e la stessa esternazione non rende quest’ultima meno una barbarie.

  • La giustizia.

Non intesa come concetto filosofico astratto, ma come concreta amministrazione della stessa. Soprattutto qui, in questa regione da cui si scrive.

Un altro dato notorio e non bisognevole di dimostrazione alcuna è che il peso dei maxiprocessi si riverbera sugli uffici giudiziari in cui essi impattano, tanto più se di piccole dimensioni. E tali sono in Calabria sette tribunali sui dieci complessivi. Organici già ridotti, esposti alle inevitabili temperie di trasferimenti, malattie e congedi parentali o di maternità, vengono sbaragliati ad ogni nuovo maxi che si avvia in questi uffici. Ne fa le spese per prima la giustizia civile, previdenziale e del lavoro, proprio quella che dà il vero segno della presenza dello Stato in un territorio ad alta densità criminale. E’ il tempo che ai cittadini occorre per ottenere la decisione di un ricorso avverso il proprio licenziamento o l’erogazione di una prestazione previdenziale o di una pensione o per ottenere la disponibilità di un appartamento illecitamente occupato o anche solo difesa e tutela da danni ed illegittimi sconfinamenti di bestiame a dare loro il senso di vivere in uno Stato che merita di essere sostenuto e difeso e dal quale si ha la percezione d’essere sostenuti e difesi. Piuttosto che avversato ed eluso, magari ricorrendo a chi può dare tutela in altro modo e con altri mezzi. Un tempo che in quei piccoli processi su cui impattano i “maxi” spesso si misura in decenni.

La magistratura potrebbe decidere di regolare e gestire in modo rigoroso ed indipendente i maxiprocessi, decidere che questo è possibile anziché patirli come un inarrestabile fenomeno naturale al pari dei monsoni e della siccità.

L’avvocatura e la magistratura insieme potrebbero, anziché ripetere l’oramai intollerabile rosario di richieste di incrementi degli organici, che si sa benissimo non saranno mai ottenuti, certo non nella misura appena necessaria, provare ad intestarsi insieme l’unica battaglia suscettibile di dare risultati immeditati, tangibili ed a costo zero su questo fronte: la revisione della geografia giudiziaria.

Almeno altri tre di quei dieci tribunali potrebbero essere chiusi, rafforzando gli organici dei sette superstiti. Anche il più inetto studioso di scienze dell’organizzazione sa, infatti, che un Tribunale con 40/50 magistrati in organico non può funzionare, eppure questo è l’organigramma di ben cinque dei dieci tribunali calabresi. Una sicura garanzia di inefficienza, soprattutto in una regione così marginale e periferica in cui quasi mai i magistrati aspirano a rimanere per l’intera carriera. Spesso nemmeno quelli autoctoni.

Invece, la classe forense si batte da anni, con il rischio di avere successo date le propensioni dell’attuale Governo, per la riapertura dell’unico tribunale calabrese soppresso, quello di Rossano. Per decenni vero esempio di sfacelo organizzativo e non per responsabilità di chi lì operasse, bensì per le ricordate, insuperabili, ragioni di tecnica dell’organizzazione. Invece, con l’appoggio come sempre demenziale della politica e dei media locali, si continuano ad agitare parole d’ordine surreali come quella della “giustizia di prossimità”, quasi che per un cittadino fosse meglio ottenere un verdetto sotto casa dopo dieci o quindici anni, anziché dopo uno o due anni a tre quarti d’ora di autobus.

La magistratura, per parte sua, è da sempre eufemisticamente tiepida verso nuove soppressioni. Perché più tribunali vuol dire, per chi aspira a fare “carriera”, più “pennacchi” (come li chiamava un caro amico e collega) da cogliere: più posti di Procuratore, Presidente di Tribunale, presidente di Sezione, ecc. Ed anche la giovane magistratura ha qualche convenienza a che sopravvivano tribunali più prossimi alle regioni del centro – sud di origine, meglio collegati e che consentono più agevoli rientri nei ponti o nei fine settimana.  

Scendendo più nel dettaglio (1).

Scendendo di diversi scalini, si arriva a quelle specifiche vicende tutte locali attorno alle quali si è pure avviluppato l’appassionato confronto.

Se ne vorrebbe abbozzare un’analisi, ma evitando cedimenti a furbizie che fanno poco onore a chi vi ricorre. E qui il riferimento è all’evocato “allontanamento” di magistrati dal distretto catanzarese perché ipoteticamente d’ingombro a discutibili prassi della locale Procura distrettuale. Le questioni della giustizia sono troppo importanti, per la vita di una comunità, per non imporre agli operatori del ramo che meritoriamente intendano farne oggetto di pubblico confronto un estremo rigore intellettuale. Non si vellica così disinvoltamente la peninsulare propensione all’immaginifico complotto, non quando sono in ballo le libertà e i diritti delle persone. Neppure gli stessi magistrati a cui si allude meritano di essere così scompostamente tirati in ballo. Gli atti di ciascuna di quelle vicende sono accessibili e se ne può ben fare oggetto di discussione, ma seria e documentata recuperando un minimo di compostezza mentale.

Altre vicende, invece, possono e meritano di essere trattate, ad esempio quella dell’aula bunker di Lamezia Terme. Realizzata (e celebrata) a tempo di record, in molti articoli di stampa, se n’è quantificato il costo in cifre che variano dai due ai cinque milioni di euro. Incomprensibilmente allocata nella desolata landa del mai decollato polo chimico lametino (chi scrive ha invocato navigatori e santi dei secoli lontani la prima volta che ne andò alla ricerca per l’inaugurazione dell’anno giudiziario), la successiva degradazione, con connessa necessità di nuovi investimenti per il restauro, parve dare ragione a quanti, da subito, denunciarono che era stata edificata in una zona alluvionale.

Fatto sta che, ora che è così deperita, i maxi (in particolare, l’appello del maxi fra i maxi) si celebrano a Catania. Interi collegi di Corte d’Assise e con loro difensori, personale amministrativo e forze dell’ordine quasi ogni giorno sono costretti a trasferte nel lontanissimo capoluogo etneo. Un oggettivo e non contestabile disastro strutturale, organizzativo e finanziario che rende ovviamente più arduo il rispetto di diritti e garanzie. Parlarne è non solo comprensibile, ma doveroso, forse si potrebbe riuscire a farlo ascoltandosi e rispettandosi reciprocamente.

L’altra specifica questione sollevata dalle Camere Penali è quella relativa ad una presunta corsia preferenziale di cui avrebbero goduto, per un non definito periodo, le impugnazioni cautelari della Procura rispetto a quelle della difesa davanti al Tribunale del riesame catanzarese. Se vera, sarebbe una circostanza di estrema gravità per l’ovvia e comprensibile ragione che un indagato/imputato sottoposto a misura cautelare personale è eccezionalmente privato della propria libertà a dispetto dello status costituzionale di presunto innocente che gli spetta. Una così eclatante, oltre che reiterata denuncia, avrebbe imposto un’immediata e perentoria smentita, che purtroppo non è arrivata.

Scendendo più nel dettaglio (2).

C’è, infine, nelle minute pieghe delle denunce delle Camere Penali, un vuoto che balza all’occhio d’un osservatore allenato ed è poi lo stesso che buca e affonda la fiera battaglia per la separazione delle carriere. In entrambe, al netto della povera foglia di fico di Graziano Zuncheddu[14], ad esempio della nefandezza dell’agire dei giudici soggetti all’influsso dei loro colleghi requirenti, sono sempre portate vicende che hanno colpito cittadini illustri. “Potenti”, avrebbe sentenziato la sdrucita retorica pseudo rivoluzionaria di lontani decenni. Amministratori delegati di importanti aziende, sindaci, ministri od ex, avvocati o professionisti di successo, attori, uomini dello spettacolo. Come se una singolare selettività sovversiva (nel senso dell’etimo: sovvertire = capovolgere) guidasse le cadute della giurisdizione. Così non è ovviamente e che così, invece, continui ad apparire nelle indignate denunce delle Camere Penali dice molto dei reali obiettivi dell’osannata “riforma finale”.

Eppure è storia nota, nelle nostre ed in ogni altra latitudine, che le offese a diritti e garanzie, che si consumano nella giurisdizione penale, hanno per vittime quasi sempre gli ultimi, i senza potere. E qui in Calabria ciò accade più frequentemente di quanto si vorrebbe.

Come capitò a quel piccolo sindaco, che un potente ministro a ragione definì “uno zero”, di un borgo semi abbandonato della locride. Quel Lucano, sindaco dei senza voce a Riace, condotto prima agli arresti domiciliari e poi allontanato dalla sua gente in un processo che ha indignato molte persone in tutto il mondo, ma non le Camere Penali calabresi. Eppure il padre del garantismo penale, sempre quel Ferrajoli di cui sopra, ha definito quel processo con parole che avrebbero dovuto far sobbalzare chi, con tanta enfasi, si professa paladino del garantismo: “l’intero giudizio contro Lucano è un caso esemplare di quello che Beccaria, in contrapposizione a quello da lui chiamato ‘processo informativo’ , basato sulla ‘indifferente ricerca del fatto’ e sulla disponibilità all’ascolto delle opposte ragioni, stigmatizzo come ‘processo offensivo’, nel quale, egli scrisse, ‘il giudice diviene nemico del reo e non cerca la verità del fatto, ma cerca nel prigioniero il delitto, e lo insidia, e credere di perdere se non vi riesce, e di far torto a quell’infallibilità che l’uomo s’arroga in tutte le cose’ (…) è una condanna politica, modellata sul cosiddetto ‘diritto penale del nemico, in contrasto con la regola dell’imparzialità, che è la prima regola deontologica dei magistrati” . Ma Domenico (“Mimmo”) Lucano non era un potente, girava con una scassata Alfa Romeo e in banca non aveva il becco d’un quattrino, come i suoi stessi inquisitori dovettero ammettere e quindi non meritava infuocata indignazione.

Né si sono udite quelle stesse voci stigmatizzare l’odissea giudiziaria di due giovanissime donne iraniane in fuga dal regime sanguinario degli Ayatollah, una perché dissidente curda ed artista e l’altra perché martirizzata dalla violenza di un marito padrone: sbarcate sulle nostre coste ioniche, la seconda addirittura con il suo bimbo di otto anni, furono incredibilmente accusate di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina sulla base di prove di cui era evidente la fragilità, messe in carcere per lunghi mesi con gravi rischi per l’incolumità mentale e fisica loro e di quel bambino ed assolte alla fine, ma mai degnate d’attenzione da quegli autorevoli consessi.

Ed esempi di senza volto e senza voce che avrebbero meritato una mobilitazione, che non c’è stata, da parte di chi esercita la nobile professione del difensore se ne potrebbero fare a decine.

Le pietre e le parole.

In questi ultimi anni si è insomma assistito ad una fitta sassaiola figurata in terra giudiziaria di Calabria, ma non di quelle che fanno male. Retorica contro retorica, indignazione contro indignazione, promesse, offese, declinazione di supposti imperativi. Si potrebbe andare avanti così all’infinito, protetti da rispettivi status e corporazioni, lanciandosi parole rese afone dalle rispettive convenienze, nella più totale indifferenza dei cittadini di questa regione.

Eppure, le parole, è noto, possono farsi pietre acuminate, le parole conformano la realtà, la cambiano. Possibilità, tutte, direttamente proporzionali alla capacità e disponibilità alla comprensione di quel che con esse si vorrebbe rappresentare, alla sincerità ed al coraggio da cui sono sostenute, al rigore e completezza delle analisi che s’intendono proporre.

Non una confortante passeggiata fra le rispettive e contrapposte sicurezze, insomma, è quella che ci vorrebbe, ma un cammino. Un cammino oltremodo lungo e scomodo, ma molti più di quanti s’immagini, nell’uno e nell’altro schieramento, sarebbero pronti a percorrerlo insieme.

Emilio Sirianni


 


[1] Qui l’articolo cui si riferiva la lettera del Presidente UPCI: https://www.corriere.it/cronache/21_gennaio_21/lorenzo-cesa-gratterimacche-giustizia-orologeria-l-ho-sentito-io-dire-tv-non-entro-maggioranza-8e3a2c84-5c29-11eb-9e63-4c8bcf5518af.shtml

[2] https://reggio.gazzettadelsud.it/articoli/cronaca/2024/03/02/armando-veneto-le-camere-penali-calabresi-un-processo-che-non-doveva-nemmeno-iniziare-89099ec1-9830-4320-9e98-e48dc7b5acb9/

[3] https://www.ilriformista.it/catanzaro-storia-del-metodo-gratteri-smontero-la-calabria-come-un-trenino-lego-462604/

[4] Dettaglio di una certa rilevanza visto che l’obbligo per il Ministro di relazionare su questi dati è stato introdotto solo nel 2015

[5] https://www.questionegiustizia.it/articolo/le-piaghe-e-la-panacea

[6] I dati a seguire sono sempre tratti dalla relazione ministeriale ex L.47/2015. Si prende, per comodità, quella riferita al 2023

( chrome-extension://efaidnbmnnnibpcajpcglclefindmkaj/https://www.giustizia.it/cmsresources/cms/documents/misure_cautelari_personali_2023_Aggiornamento_aprile2024.pdf) perché è quella utilizzata dalle CP nella loro polemica, ma i dati di quella relativa al 2024 non differiscono in modo sostanziale

[7] Da tener presente il disallineamento temporale fra pervenute e definite. Queste ultime potendo essere (anzi quasi certamente in grande parte essendo) relative ad annualità precedenti

[8] Cui fa da riscontro quanto scritto nella stessa relazione ministeriale: “I distretti maggiormente significativi quanto ad entità di importi sono: Bari limitatamente ai primi tre anni esaminati, Catania, Catanzaro, Napoli, Palermo, Reggio Calabria e Roma. Il maggiore fra tutti quanto ad entità sembra essere quello di Reggio Calabria, con un importo medio annuo di oltre 7 milioni di euro”

[9] Meriterebbe un approfondimento l’evidente discrasia fra i dati della Calabria e quelli delle altre due regioni quanto al rapporto fra percentuale di domande presentate e percentuale di importi risarcitori erogati. Per Sicilia e Campania le due percentuali sono o sostanzialmente sovrapponibili o molto prossime: Sicilia 15,7% delle domande totali e 17% degli importi totali; Campania 16,2% delle domande totali e 9,48% degli importi totali. Per la Calabria vi è una vistosa eccedenza della percentuale degli importi rispetto a quella delle domande: 20,4% delle domande e 34,7% degli importi erogati. Eccedenza che dovrebbe spiegarsi con il maggiore numero di giorni medi di detenzione risarciti per ciascuna domanda.

[10] Questo intervento è stato scritto in tempi molto ristretti e non vi era la possibilità di estendere l’indagine. Si rimane sempre disponibili alla creazione di eventuali gruppi di studio che intendano approfondire l’argomento.

[11] L. Ferrajoli, “Etica e giurisdizione. I fondamenti teorici”

[12] https://www.magistraturademocratica.it/articolo/il-pm-il-giudice-e-la-comunicazione/

[13] https://www.questionegiustizia.it/articolo/la-rappresentazione-della-mafia-e-il-processo-pensieri-di-un-giudice-del-sud-davanti-alla-televisione

[14] La scarcerazione dello sfortunato pastore sardo è avvenuta ai sensi dell’art.643 c.p.p. ovvero all’esito di un processo di revisione. Cioè, per l’emergere di nuove prove dopo una condanna passata in giudicato. Quindi, per definizione, i giudizi non avevano commesso alcun errore

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