In ricordo
In quella voragine è finita anche una parte dello Stato
sostituto procuratore della Repubblica presso la Direzione investigativa antimafia di Reggio Calabria- Esecutivo di Magistratura democratica
Ventisette anni fa, Vito Schifani, Antonio Montinaro e Rocco Dicillo, sapevano di rischiare molto, ma rappresentavano lo Stato e dovevano garantire la sicurezza dei magistrati che li precedevano nella carovana di autovetture che percorreva l’autostrada in direzione Palermo. Davanti a loro Francesca Morvillo e Giovanni Falcone; quest’ultimo era appena rientrato da Roma dove era stato chiamato dal Ministro della giustizia alla direzione degli Affari penali di quel Dicastero. Per ucciderli fu fatta esplodere una tonnellata di tritolo.
Non è stato facile interpretare l’operato di Giovani Falcone, quando era in vita. Ci furono molti fraintendimenti inspirati da altrettanti pregiudizi. Neanche Magistratura democratica ne fu esente, perché non seppe cogliere la specialità e la complessità in cui Falcone agiva.
Ma la complessità dell’uomo continua ad offrirci attuali spunti di riflessione.
Giovanni Falcone per diversi anni fu giudice civile e quell’esperienza fu decisiva per innovare la modalità di coordinamento delle indagini da giudice istruttore prima e da pubblico ministero, poi; la possibilità di svolgere ruoli giudicanti e requirenti – che già oggi sono fortemente ostacolati e che si vorrebbe definitivamente inibire – gli consentì una fruttuosa commistione di saperi e di esperienze che egli fu capace di sintetizzare nella sua attività inquirente.
Questa sua capacità di progettare l’investigazione, da una prospettiva diversa dagli schemi sin lì praticati, fu gravida di felici intuizioni: il lavoro di gruppo, il costante scambio di informazioni nell’ufficio e tra uffici, la specializzazione che affina le conoscenze; ma anche un esercizio prudente ed attento dell’azione cautelare e di quella penale, al punto da essere accusato di proteggere livelli superiori, la cui esistenza era, spesso, frutto di teorie complottistiche, prive di riscontri processuali.
Elogiare Giovanni Falcone impone di fare i conti con il suo stile professionale che mal si concilia con gli slogan del populismo penale, con le teorie cospirative, con la paura della complessità ed i tanti cavalieri bianchi privi di dubbi e carichi di certezze con cui addomesticare i diffusi timori sociali, sapientemente alimentati da chi ne trae profitto. Mille chili di tritolo hanno aperto un voragine e quella voragine ci ha privato di uomini di valore.
Ma in quella voragine è finita anche una parte dello Stato che quegli uomini e quella donna rappresentavano, singolarmente e nella dimensione collettiva di quel tragico momento.
La nostra strada di magistrati è ancora piena di quelle metaforiche voragini, perché c’è sempre il rischio che una parte dello Stato che rappresentiamo possa restarvi intrappolata tra tentazioni carrieristiche, timori reverenziali, atteggiamenti burocratici ed individualismi esasperati.
Speriamo che il gusto per la complessità, l’arte del discernimento, il senso profondo della giustizia, che animarono l’operato di Falcone, insieme allo spirito di sacrificio di Schifani, Montinaro, Dicillo ed all’amore profondo di Francesca Morvillo, possano essere la bussola per le nostre scelte ed i nostri comportamenti.
Allora potremo dire davvero che non sono morti invano.
Il Manifesto, 23 maggio 2019
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