Sulla proposta di modifica della prescrizione dei crediti di lavoro e sulla Costituzione dimenticata

(Roma, 18 luglio 2025) – Il relatore del D.d.l. 1561, attualmente in discussione in Parlamento, ha proposto l’introduzione, nel testo, di un art. 9 bis, relativo ai crediti retributivi dei lavoratori subordinati e alla loro prescrizione estintiva.

È un intervento che suscita, più che dubbi o contrarietà, vero sconcerto: nel merito e nel metodo.

Nel metodo, in quanto il legislatore (inerte in molti ambiti in cui il suo intervento è stato tante volte richiesto, nelle sedi più autorevoli, senza esito) mostra di voler intervenire in una materia in cui invece le questioni interpretative avevano già trovato, in larga parte, un loro affidabile assetto con lo strumento fisiologico della nomofilachia, affidato alla Corte di Cassazione, nel solco delle decisioni costituzionali.

Nel merito, in quanto la norma proposta determina una compressione molto significativa dei diritti di credito che nascono dalla prestazione di lavoro. Quel lavoro che la Costituzione pone a fondamento della Repubblica e che la Corte Costituzionale, fino dagli anni sessanta, ha riconosciuto come intrinsecamente diseguale, perché connotato dal timore dei lavoratori di far valere i loro diritti, a fronte dei poteri datoriali, prima di tutti il potere di licenziare. Da questa constatazione era nata la giurisprudenza costituzionale che escludeva il trascorrere della prescrizione durante il rapporto di lavoro, a meno che esso non fosse assistito dalla garanzia della reintegrazione. Una garanzia, da sempre assicurata nell’impiego pubblico, che era stata estesa alle imprese medio grandi dall’art. 18 dello statuto dei lavoratori. Tuttavia da quando, per scelta del legislatore, la reintegrazione non è più la sanzione di ogni licenziamento illegittimo in nessun ambito del lavoro privato, quella garanzia è venuta meno. All’esito, i lavoratori, dipendenti di qualsiasi datore di lavoro privato, se illegittimamente licenziati, non possono oggi contare sulla certa reintegrazione nel loro posto di lavoro. È, insomma, venuto meno il solo rimedio, che, secondo la Corte Costituzionale, può liberarli dal timore di rivendicare i propri diritti per paura di essere licenziati. Preso atto di questo nuovo assetto, nel 2022 la Corte di Cassazione aveva affermato che, dopo la riforma cosiddetta Fornero, la prescrizione non decorresse più nel corso dei rapporti di lavoro alle dipendenze di qualsiasi datore di lavoro privato.

I relatori del D.d.l. sembrano non considerare affatto questi principi (certo non facoltativi, essendo stati affermati dalla Corte Costituzionale). Essi hanno infatti previsto, nelle imprese soggette alla disciplina del nuovo testo dell’art. 18, che la prescrizione decorra nel corso dei rapporti di lavoro e i lavoratori anzi siano costretti, a pena di decadenza dai loro diritti, a introdurre il giudizio per fare valere quei diritti entro un termine breve (180 giorni) dal giorno in cui li hanno rivendicati stragiudizialmente. In altri termini, i lavoratori, parti di un rapporto diseguale secondo la nostra Costituzione (e la nuda realtà dei fatti), dovrebbero essere costretti ad agire in giudizio contro il loro datore di lavoro, anche mentre ne sono dipendenti, per di più entro limiti temporali impensabili in qualsiasi altro rapporto connotato da una disparità sostanziale delle parti (basti pensare alla disciplina in tema di diritti dei consumatori).

Non solo. Secondo l’emendamento, questi stessi lavoratori, quando rivendichino una giusta retribuzione, invocando l’art. 36 della Costituzione in confronto di datori di lavoro che applichino contratti collettivi sottoscritti da associazioni adeguatamente rappresentative che non prevedono una retribuzione proporzionata e sufficiente, non avrebbero più diritto a chiedere una tale retribuzione, come ha stabilito la Corte di Cassazione da ultimo nel 2023 in attuazione del precetto costituzionale, se non nei casi di “grave inadeguatezza dello standard stabilito dal contratto collettivo” e anche in tal caso spetterebbero loro le differenze solo a partire dalla loro prima rivendicazione.

La proposta sembra evidentemente ignorare che non spetta al legislatore ordinario riscrivere i connotati della retribuzione costituzionale, che si trovano già tutti nell’art. 36 Cost. e che quella che la Costituzione garantisce non è una paga “non gravemente inadeguata”, ma una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro e comunque sufficiente ad assicurare al lavoratore e alla sua famiglia una vita libera e dignitosa.

Libertà e dignità. La retribuzione ha a che fare con questi diritti, che la norma proposta minaccia quindi, gravemente, per di più in un momento in cui il problema salariale appare non più ignorabile nella sua gravità e nella sua, ormai evidente, relazione con un modello di sviluppo e di organizzazione produttiva largamente fondato sullo sfruttamento del lavoro umano.

Libertà e dignità, la cui tutela è ragion d’essere della giurisdizione. Un potere autonomo e indipendente da ogni altro e, proprio perché tale, in grado di difendere i diritti dei più fragili e diseguali, tuttavia sempre meno tollerato, non solo in autocrazie, ma anche in antiche e un tempo solide democrazie. Anche quando esso si esprime nei suoi organi supremi, Corte Costituzionale e Corte di Cassazione, avverso le cui statuizioni questa nuova norma è direttamente rivolta. 

L’Esecutivo di Magistratura democratica

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