Magistratura democratica aderisce al comitato promotore dei referendum su lavoro e cittadinanza dell’8 e 9 giugno 2025. Intendiamo partecipare al dibattito pubblico sui temi referendari, cercando di contribuirvi, come associazione di magistrati, con il nostro specifico sapere tecnico.
Lo facciamo pensando che sia non solo un diritto ma un nostro dovere, e che questo impegno sia parte necessaria di quello che ci muove in difesa della Costituzione, perché conservare la Costituzione significa anche lavorare per attuarla. E nel disegno costituzionale dei diritti il lavoro è al centro, fondamento della Repubblica democratica. Ma non qualsiasi lavoro, non ogni scambio tra la fatica umana e un compenso quale che sia: nella Costituzione il lavoro è via di emancipazione dal bisogno, mezzo per consentire “l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”, strumento di uguaglianza. Per questo il corrispettivo del lavoro umano, la retribuzione, è l’unico prezzo che trova la sua disciplina nella Costituzione: perché deve essere idoneo a consentire al lavoratore e alla sua famiglia “un’esistenza libera e dignitosa”.
I referendum di giugno hanno il merito di rimandare a questa idea di lavoro, chiamando elettori ed elettrici a ripudiare un modello regolativo molto diverso, affermatosi nel nostro ordinamento ormai da decenni e di cui i decreti attuativi della riforma nota come Jobs act (oggetto dei quesiti sui licenziamenti) costituiscono l’esempio ultimo e perfetto. Un modello in cui il lavoro è un fattore della produzione come gli altri, è una merce, che può essere sempre usata quando serve e sempre dismessa quando non serve più, al più con una spesa predeterminata, generalmente modesta; in cui i processi produttivi sono segmentati, se non completamente disgregati, in infinite catene di appalti e subappalti, molto spesso senz’altro fine che ridurre i costi e i rischi derivanti dalla titolarità dei rapporti di lavoro, con l’effetto di scaricare quei rischi sui lavoratori, sulle loro vite, sui loro stessi corpi, messi gli uni contro gli altri nell’affollata solitudine di luoghi di lavoro dove non si percepisce più alcuna comunanza di interessi e di obiettivi.
Questo assetto regolativo è già stato dichiarato illegittimo, in molti dei suoi principi qualificanti, dalla Corte costituzionale, così che il voto di giugno può servire a eliminare ciò che resta di quelle previsioni e, più radicalmente, dell’idea di regolazione dei rapporti di lavoro che le sostiene e che ha ridotto le tutele a vantaggio di una crescita dell’occupazione solo apparente, fatta di lavoro povero e precario, inidoneo a consentire a lavoratori e lavoratrici (soprattutto i più giovani) vite libere e dignitose e al prezzo della frantumazione di qualsiasi identità collettiva dei lavoratori.
L’ultimo dei quesiti riguarda l’accesso alla cittadinanza. Non si tratta di un quesito estraneo ai primi quattro, al contrario crediamo che l’averli proposti insieme abbia un senso profondo.
In primo luogo perché anche questo, come gli altri, attiene alle garanzie di diritti fondamentali, anzi ai diritti di persone – le persone straniere che vivono in Italia – le cui vite stesse sono oggi al centro dell’interesse della politica e del dibattito pubblico e che tuttavia non hanno alcun potere di decidere, con il voto, di sé. Ma vi è un’altra ragione che rende, non solo opportuna, ma essenziale la presentazione congiunta dei quesiti sul lavoro e sulla cittadinanza: in questi anni tanta parte del dibattito pubblico si è costruito sulla contrapposizione, su noi contro loro e generalmente “loro” erano le persone straniere, mentre “noi” erano spesso le lavoratrici e i lavoratori italiani, specie i più poveri. Oggi con il voto ai referendum i cittadini e le cittadine italiane possono affermare che i diritti si tutelano per tutti e tutte o non sono diritti per nessuno e che a rendere fragili e precarie le vite dei lavoratori non sono i lavoratori più poveri, ma sistemi regolativi che consentono, a volte incoraggiano, lo sfruttamento degli uni e degli altri.
L’Esecutivo di Magistratura democratica